
Carla Longhi, quarantenne né bella né brutta, vive un periodo di totale spaesamento. La sua carriera di scrittrice langue miseramente e pur avendo già pubblicato due libri, che in pochi hanno letto, tenta ancora e ancora. I fitti colloqui con la sua editor, che la sprona a seguire il mercato e non i suoi sogni a poco possono per risollevarla. Ha appoggiato il desiderio di Dario, suo marito, di ritornare in America, adesso vivono a Los Angeles con il loro figlioletto. Carla non parla inglese e fa fatica ad impararlo, quasi fosse un’offesa all’italiano. Se suo figlio si integra perfettamente a scuola e con gli amici, per lei ogni strada è preclusa. Ha lasciato in Italia ben poco, una carriera universitaria da iniziare sul serio e la patetica convinzione di essere una scrittrice. Una sera viene invitata alla presentazione di un libro da un professore dell’Università della California, che l’aveva notata ad una sua conferenza sul Rinascimento e la Contemporaneità. È a casa del console tedesco e si parlerà del libro-biografia di un jazzista ebreo sopravvissuto ad Auschwitz. Si è vestita bene, ha chiamato un Uber perché lei non vuole guidare, va all’appuntamento. Il professore apprezza la sua bellezza e Carla si sente a posto. Entrano: lei non conosce nessuno, lui quasi tutti. Si fanno chiacchiere e convenevoli quando ad un tratto il professore scorge una sua collega, Louise Bailey, e gliela vuole presentare a tutti i costi. Entrambe si occupano di avanguardie, americana l’una, italiana l’altra. Louise mentre parla sibila e argomentando con enfasi sputa: saliva e il cibo masticato dell’aperitivo. Durante la conversazione un piccolo bolo va a depositarsi sulle labbra di Carla. Lei non sa che fare, è paralizzata dalla vergogna, si sente in imbarazzo e anziché pulirsi con un tovagliolino, serra le labbra e ingoia…
QUCHI - acronimo di Quello che ho ingoiato - è l’ultimo romanzo della scrittrice e sceneggiatrice Caterina Venturini. Il titolo deriva dall’abitudine tutta americana di ridurre in una sigla anche fenomeni molto complessi che se da un lato conforta, dall’altro se non ne si conosce il significato disorienta. L’esperienza americana dell’autrice, anch’essa trasferitasi a Los Angeles da adulta dopo aver vissuto buona parte della vita in Italia, le è servita per costruire la storia del suo alter ego Carla Longhi (il nome della protagonista è un omaggio a Carla Lonzi). Anche se ci sono molti aspetti vissuti dall’autrice il romanzo non è autobiografico, è un gioco di specchi tra il vero vissuto e le caratteristiche di altre persone conosciute, un puzzle di personalità che vanno a formare la figura di Carla Longhi. Il corpo è sempre presente nel romanzo e QUCHI è proprio il simbolo di questo già dalla prima scena, quando Carla ingoia un piccolo boccone arrivato sulle sue labbra che non riesce a togliere perché prova vergogna nel farlo. Piuttosto che sputare fuori preferisce ingoiare, per un arcaico senso di colpa molto profondo che lei ha. Si rispecchia nello sguardo degli altri e si piega al loro giudizio per fragilità e inadeguatezza. Carla Longhi è una scrittrice abbastanza in crisi e nel romanzo parla continuamente con chi sta scrivendo, con l’agente letteraria, con la sua psicanalista Rita che sta a Roma, con sua madre e con suo marito. Ci sono tante voci che entrano nel suo dialogo interno e personale. Vogliono metterla in contraddizione, facendole notare la grande quantità di errori che fa o potrebbe fare, sia nella sua vita privata che lavorativa. Questi personaggi possono essere considerati altre parti di Carla, anche se lei pensa appartengano ad altre persone. In realtà fanno parte di ciò che ha ingoiato. Bocconi amari per la maggior parte. Il problema della lingua per Carla è grande, appena arrivata in America non parla e poco capisce l’inglese per non averlo studiato. Ciò contribuisce a fare di questa avventura una specie di salto nel vuoto, come per una giovane incosciente. Carla però non riesce a buttarsi e non ingoia una nuova lingua. Troppi i pesi di ciò che ha fatto prima e di come lo ha fatto: relazioni mal gestite, anche con la famiglia, una carriera universitaria abbandonata, l’affrettato matrimonio e la maternità. Neanche il suo lavoretto di affittacamere la soddisfa, in maniera compulsiva cerca i like dei suoi clienti, come una bomboniera cura la stanza e la riempie di oggetti per far piacere agli ospiti. Essere riconosciuta e apprezzata da sconosciuti che lasciano un giudizio le serve per dimostrare che è capace di fare qualche cosa. Carla vive in uno spazio tutto suo che non né in Italia né in America ed è molto scomodo. Vive sospesa nel ricordo del Paese natio che forse non esiste più, mentre il nuovo lo avverte come nemico, anche se le ha dato opportunità che non ha colto. C’è una favola di Andersen che ricorre ossessivamente nel romanzo, la morale: “Quello che fai tu è sempre ben fatto”. Carla Longhi si sente come il contadino della favola. Ha sperperato nella sua vita la sua ricchezza intellettuale e sentimentale, per lei non ci sono complimenti ma il suo stesso negativo giudizio che è: “Ma cosa diavolo hai combinato”. Cosa però che potrebbe dire anche il lettore dopo 265 pagine di flusso di coscienza.