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Quel maledetto Vronskij

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Giovanni è un quarantacinquenne alto e allampanato, veste sempre con cura camicie ben stirate e gilet senza maniche, ma non si piace, non si è mai piaciuto in realtà, e non soltanto fisicamente. Di sé detesta il sorriso, sempre uguale nelle fotografie, forse divenuto appena più malinconico con il passare del tempo, ma proprio non la sopporta quella sua gentilezza costante che lo avvolge “come una camicia di forza”. Giovanni è un conservatore, nel senso che ha tutte le sue vecchie reflex, le sue Olivetti, il primo Apple con hard disk esterno, l’enciclopedia storica regalata da suo padre per il matrimonio, i suoi vestiti degli ultimi trent’anni. Ogni collezione ha il suo posto in casa e lui riesce esattamente a trovare quello che vuole quando ne ha voglia. In effetti ha diverse manie, come dice sua moglie Giulia. Lei è una bella donna, intelligente e davvero in gamba, decisamente troppo per lui, pensa Giovanni, che ancora oggi si chiede come abbia potuto sceglierlo e amarlo. Il loro è un matrimonio tranquillo, fatto di consuetudini quotidiane inserite in una vita borgese come tante; i due hanno avuto anche una figlia che adesso vive lontano. Giulia ha affrontato un momento difficile, adesso la malattia sembra superata ma ancora ci sono i controlli periodici che mettono molta ansia ad entrambi. Non è ancora tornata al suo lavoro di segretaria ma continua ad occuparsi amorevolmente del giardino di casa, pieno di piante e fiori meravigliosi, come l’ibisco che è appena fiorito: questa è la bella notizia con cui lei accoglie Giovanni al ritorno dal lavoro una sera, una delle piccole cose che li rende felici. Dopo cena guardano le stelle seduti al buio in quel giardino e si sentono appagati e sereni. Giovanni è un tipografo, dopo essere stato licenziato da una storica azienda – di cui non pronuncia più il nome – ha aperto una piccola bottega grazie al regalo di uno zio e il lavoro non manca, tra tesi di laurea e, soprattutto, cataloghi pubblicitari; tutta roba zeppa di errori che lui corregge di continuo, anche se volte pensa che ci siano davvero troppi refusi ovunque e che a nessuno importa o li nota, d’altra parte “non poteva battersi con il mondo intero”. È bravo nel suo lavoro, Giovanni, non è un grafico ma ha tanta esperienza da poter fare un po’ di tutto, anche il rilegatore. Ogni giorno lavora e pensa, a volte anche a quei terribili giorni quando sua moglie è stata operata e lui si è dimenticato di mangiare, giorni di cui ha ancora paura e che ogni tanto ritornano come un fantasma. Ad ora di pranzo lo raggiunge il suo amico Gino e mangiano qualcosa al bar vicino. Lui ha sempre da raccontargli un sacco di cose, soprattutto dei litigi con sua moglie, ma un giorno è Giovanni, di solito silenzioso, ad avere una novità. Giulia è andata via di casa, così, senza una spiegazione, senza un motivo, ha soltanto lasciato un biglietto “Perdonami, sono tanto stanca. Non mi cercare”. Poi più nulla. Passano i giorni, le settimane, lui si sente sempre più solo, gli mancano le loro piccole abitudini, la colazione insieme, il bacio al ritorno dal lavoro, il dopocena in giardino. Lascia morire le piante e i fiori, non li annaffia, poi va via di casa, pensa ossessivamente a Giulia e si domanda di continuo cosa possa essere successo ma non la cerca, perché ha la certezza che lei tornerà. Un giorno, prende un libro a caso tra quelli che lei leggeva con passione, quasi a cercare una spiegazione tra quelle pagine. Apre il più voluminoso, Anna Karenina, comincia a leggere e poi prende una decisione…

Il protagonista del romanzo di Claudio Piersanti – giornalista scientifico e apprezzato romanziere di storie quotidiane “di uomini e donne comuni alle prese con il malessere sociale e la solitudine” – è appunto un uomo “normale” che vive un’esistenza borghese e si sente un po’ un miracolato dalla vita per aver ricevuto tanto senza particolari meriti o doti. Ha stima di sé come professionista e ha una vera passione per il suo lavoro ma si sente un residuato del secolo scorso con le sue competenze ormai inutili, un avanzo di un tempo passato e decisamente superfluo in un oggi in cui tutto va a rotoli a causa della superficialità, sicché gli sembra di essere circondato da refusi sbattuti in prima pagina, errori e sbagli di cui a nessuno importa; una cosa insopportabile per la sua mania di perfezione e bellezza grafica. Una condizione reale e metaforica allo stesso tempo che lo fa sentire estraneo al mondo. Anche la sua gentilezza la considera una debolezza, un difetto fastidioso; eppure la sua vita è bella perché l’equilibrio del rapporto matrimoniale la rende preziosa con le sue piccole gioie. Quando la moglie scompare, lui è incapace di accettare la fine della sua storia d’amore e, pure nella certezza che lei tornerà, si arrovella nell’ossessiva ricerca di una spiegazione a ciò che gli sta succedendo, che crede di trovare in una lettura amata da sua moglie, finendo per immaginare una realtà che non esiste ma che gli pare plausibile. L’ossessione prende nome, Vronskij, ovvero quello dell’amante della protagonista del libro, perché Giovanni si convince che anche Giulia ne abbia uno. Quando questa ipotesi cadrà, l’ossessione resterà a perseguitarlo più di prima, Vronskij continuerà a tormentarlo facendosi metafora del male che minaccia la sua vita, metafora della morte addirittura. Una ossessione che lo accompagnerà sempre, perché sempre ogni felicità ha un’ombra in agguato che la segue. Lo sappiamo bene e capiamo perfettamente Giovanni, ognuno di noi alle prese con un maledetto Vronskij al quale abbiamo dato un nome diverso, se mai abbiamo avuto il coraggio di guardarlo in faccia e chiamarlo per nome. Questa è una piccola storia borghese senza colpi di scena, la storia di una ossessione che diventa anche scopo e motivo di vita quando l’uomo decide di chiudersi nella tipografia – a dimostrazione che soltanto quella è adesso la sua vita – per stampare una copia unica, elegante e raffinata, del libro amato da Giulia, per donarglielo come “ultimo pegno d’amore”, è stato ben detto. Ha detto Piersanti che Giovanni, chiuso nella sua sofferenza, continua a fare il suo lavoro per lei, perché è quanto di meglio sa fare e può donarle. Ma questa è anche una storia intimista di tenacia e tenerezza, di pazienza e attesa, di devozione pacata alla bellezza, dei sentimenti profondi e delicati di un uomo, di una quotidianità che non è abitudine ma amore. È anche una storia di amicizia, di dolore e delicatezza, di amore e morte. Ha scritto Sandra Petrignani su “Il Foglio” che “Nelle storie di Piersanti sembra che non accada niente o pochissimo e poi quando arrivi in fondo hai l’impressione di stringere fra le mani il senso della vita”. È così davvero. Una caratteristica della scrittura di Piersanti è lo stile pacato ma evocativo, un modo di raccontare con distacco e senza sentimentalismi ma pure coinvolgente, un ritmo misurato e senza sussulti grazie anche ad una terza persona che però sembra una prima, con la sua lingua ricercata ed elegante propria di un uomo fuori tempo come il protagonista. Non è un libro per chi cerca cose che accadono e nemmeno per chi cerca una lettura che scorra veloce. Il ritmo è quello dell’amore coniugale, tenace e senza scosse, di questa coppia, che va apprezzato, quindi, con lentezza così come arriva al lettore, pagina dopo pagina, per apprezzare meglio questi personaggi un po’ da fiaba che, infatti, - come ha detto lo stesso autore a proposito di tutti i suoi romanzi – “non prendono spunto dalla realtà ma nascono sulla pagina bianca”. A conclusione, ecco un estratto delle motivazioni che Renata Colorni ha accompagnato alla sua candidatura di questo romanzo per il Premio Strega 2022, dove concorre tra i sette finalisti. “In questo libro, così breve e strano, a tratti improbabile per chi non ha dimestichezza con i puri di cuore, una specie di favola dolce e sinistra attraversata da cima a fondo da un brivido allarmante, Claudio Piersanti dà senso e spazio al mistero del silenzio e della solitudine, dimensioni fondative dei rapporti umani. Tutto questo grazie alla raffinatezza del suo intuito psicologico e alle risorse stilistiche innate della sua scrittura, che derivano da una lingua che ha la limpidezza del cristallo e da una straordinaria naturalezza e versatilità espressiva”.