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Qui tutto è fermo

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Appena la vede all’aeroporto, Guido fatica a credere che quella mora alta e avvenente che si guarda intorno nella sala degli arrivi internazionali sia proprio sua sorella Chiara. La chiama per nome, facendole un cenno con la mano tra il flusso dei viaggiatori, e i due si sorridono come due estranei, mentre si avvicinano l’un l’altro con un impaccio doloroso. Solo quando si riuniscono in un lungo abbraccio, la tensione si stempera e la sensazione che provano entrambi è quella di essere a contatto con qualcosa di familiare. Mentre si dirigono verso casa dalla madre, Guido osserva Chiara che guida, con entrambe le mani salde al volante, con la stessa prudenza che viene insegnata a scuola guida. Ancora non riesce ad abituarsi all’idea anche Chiara se ne vada in giro con un’automobile, anche se la donna ha la patente da ormai cinque anni. Il fatto è che Guido è lontano da tempo: vive a Madrid con Guadalupe ed è tornato in quei luoghi della Maremma laziale - campi arati, coltivi bassi e schiacciati e immobilità opprimente, tipica dell’Etruria meridionale - perché a sua madre è stato diagnosticato un cancro. Appena la vede, nota che il suo aspetto non è affatto quello di una persona malata: la pelle è abbronzata e tonica e i capelli sono raccolti in un elegante chignon alto. La donna lo stringe in un forte abbraccio e Guido si sente un pupazzo tra le mani di una bambina disperata. Quando si siedono sul divano grande del soggiorno, comincia il solito rituale, snervante, delle foto. Guido mostra alla madre le immagini, impresse sul suo cellulare, di Guadalupe - che ha tagliato i capelli cortissimi - e dell’ultimo viaggio che lui e la sua compagna hanno fatto a Bilbao, la loro “cara scappatina autunnale”. In una delle foto Guadalupe posa sorridente davanti al Guggenheim, mentre in un’altra regge in mano un palloncino che le hanno regalato in un bar, dopo aver provato una nuova marca di birra artigianale…

Si chiama Guido il protagonista del romanzo di Matteo Edoardo Paoloni - classe 1986, originario di Tarquinia ma trasferito in Spagna, dove vive e lavora - ma potrebbe chiamarsi Paolo o Giovanni o Filippo. Potrebbe essere cioè uno qualunque, un qualsiasi ragazzo di provincia - una provincia in cui “tutto è fermo” e ogni ambizione sembra morire sul nascere - che si allontana dai luoghi che è convinto gli stiano stretti e va a cercare un nuovo respiro, un nuovo lavoro, un nuovo amore, una nuova speranza in una terra straniera. E riesce nel suo intento: il nuovo ritmo di vita - tra amici, affetto, interessi - è perfetto; la nuova dimensione è ideale e l’esistenza non ha più quell’odore di muffa e di stantio che aveva a casa. Ma il passato ha memoria e ci si deve fare i conti; dal passato non si sfugge e, per non soccombere, l’unica strada percorribile è decidere di confrontarsi con esso e con le ferite che ci ha lasciato. Per andare avanti, è necessario fermarsi, tornare indietro e cercare il perdono, verso gli altri, per sé e verso il provincialismo soffocante e castrante da cui si è tentato di fuggire. E se il pretesto per tornare a casa e fare i conti con i propri demoni è una telefonata tanto inattesa quanto tragica - l’annuncio di una malattia, una di quelle che lascia poche speranze -, allora bisogna aprirla quella porta, è necessario farlo defluire quel passato che ha tagliato la carne e graffiato l’anima. Solo così ci si può rendere conto che non è dalla provincia che si è fuggiti, non è da un legame familiare imperfetto che si è scivolati via. È dal dolore che ci si è allontanati, è da tutto ciò che può ferire e far male. Ma è solo tornando che le ferite possono cicatrizzare e il passato può smettere di essere un nemico. Con un ritmo veloce, fatto di brevi capitoli e di un utilizzo consapevole della tecnica dello show don’t tell, Paoloni riesce a portare sulla pagina i colori, i suoni, i profumi e i profondi silenzi che accompagnano l’arco di trasformazione del protagonista. I ricordi si cristallizzano e smettono di fare male. Il paese non è più una gabbia ma si trasforma in una preziosa scatola, quella in cui si ripongono gli oggetti più cari, quella che ogni tanto si ha bisogno di aprire per ricordare a noi stessi chi siamo.