
Nel mezzo della “Guerra”, un uomo braccato dai suoi inseguitori è sospinto lontano dalle sue abituali residenze, nel fitto bosco sulla montagna. L’uomo fugge, finché la visione non gli si apre su un altipiano, davanti a un vecchio e nobile e grande maniero. È il crepuscolo, un crepuscolo lagrimoso d’autunno. Il maniero, il possibile rifugio. L’uomo si avvicina, studia il luogo apparentemente chiuso, buio, silenzioso. Si affaccia alle finestre, dietro le inferriate, saggia le porte, I vecchi battenti. Un severo silenzio lo tiene lontano. Poi, di tra i nuovi e piccoli spiragli, si disegna una prima stanza, un salone: di ricche e nobili spoglie, d’immobilità. Si profilano due cani a guardia dell'abitazione. L’uomo si dispone a richiamare l'attenzione dei possibili proprietari del castello. Sul tavolo intravede un piatto di minestra fumante, segno-traccia di un abitare. L’uomo, il fucile imbracciato, frustrato dall’ostinato silenzio in risposta, si spinge oltre: spara, vuole entrare a tutti i costi. Trova il modo di penetrare. I cani gli ringhiano contro. I mobili e l’antica tappezzeria: severa eleganza nobile. Un palco di legno, “un profondo e sinistro silenzio” contrappuntato solo dalla continua minaccia sonora dei due cani. In questa, appare un anziano, poco meno che settant’anni, “capelli argentei e ondulati, sopracciglia bianche e foltissime”. Nel viso, alcunché di nobile e selvatico, creatura duplice, severa e inquietante, magnetica e ambigua come il suo sguardo…
È il crepuscolo la soglia sottile che si interpone tra i rumori della guerra e il nobile maniero teatro di questo romanzo del 1946, un nucleo di fiaba e la pelle del romanzo nero (o il passo cadenzato d’una ghost story), del narrare gotico. Gotico nell’abitazione che si chiude al visitatore e al contempo lo attrae inesorabilmente a scoprirne le stanze. Stanze di languido abbandono, di severa immobilità, scenografie che rimandano la percezione del visitatore, in costante sensazione di essere spiato. Il racconto si compone proprio attraverso l’esplorazione delle stanze, nel landolfiano viaggio di percezione, quasi il visitatore-protagonista ‒ e con lui il lettore ‒ si facesse totalmente percezione d’immagini e oggetti, riflessi nel proprio sentire, nelle proprie contrapposizioni interne in cui la repulsione si accompagna all'attrazione, segni di morte a vividi bagliori. Le stanze sono teatro gotico di amate spoglie. Un ritratto di donna vive nell’ardore del protagonista, nella sua indomita curiosità; s’incarna nelle identiche fattezze dell’inquieta figlia. Gotico è questo labirinto che confonde e, improvviso, svela. Passaggi segreti, rumori nella notte (quanti abitatori, dunque?). Landolfi racconta di un autunno stagione “inebriante e malinconica” che ritorna, nella pelle di una casa dal lungo passato oscuro, trasudante dalle pareti, diffuso negli oggetti, nelle teorie di mobili e di vetri, nella rara luce del fuoco nei camini, e in quelle segrete apparizioni di tra l'oscurità perfetta e il silenzio lacerante.