
L’outsider, di fronte “all’immenso mare di mediocrità che compone l’umanità”, non può che provare inquietudine e disperazione. Nelle fasi iniziali di questa presa di coscienza, quando ancora non conosce sé stesso, viene visto come un disadattato. La sua unica àncora di salvezza risiede nel conseguimento della consapevolezza dell’intima verità celata dal suo malessere, ovvero che c’è qualcosa di davvero profondamente sbagliato nel modo di vivere comune: “L’inferno spirituale è mettere un uomo abile e di grande talento in una posizione in cui sarà frustrato e annoiato, e gli verrà negata l’espressione di sé”. Nella nostra società l’outsider non riesce ad essere un leader. Ma esiste, almeno in nuce, la possibilità che gli outsider costituiscano un argine contro il declino? I primi cristiani, i padri della Chiesa degli inizi avevano incarnato una “minoranza creativa” in grado di ribellarsi all’Impero romano, finendo con l’esercitare un ruolo attivo nel processo che avrebbe portato al suo collasso. Solo successivamente, con l’acquisizione di un potere sempre maggiore, la stessa Chiesa avrebbe iniziato a respingere, perseguitare gli outsider “che fin dall’inizio non si mostravano sottomessi alla sua autorità”. Nella nostra epoca l’outsider è solo un osservatore, il testimone consapevole di una inarrestabile decadenza, oppure può unirsi ad altri come lui, a costituire una avanguardia che possa condurre l’umanità fuori dalle sabbie mobili della moderna società materialista, verso un futuro in cui gli individui possano espandere la propria coscienza e godere pienamente del vero potenziale insito in ogni uomo?
“L’outsider […] è un uomo ossessionato dal senso di futilità della vita. La maggior parte degli outsider moderni su cui ho scritto riteneva che non ci fosse via d’uscita da questa impasse. Ma un esame approfondito mostra che in una certa misura tale atteggiamento è dovuto alle condizioni peculiari della nostra civiltà. […] Se l’outsider moderno vede il mondo come qualcosa di irrisolto e futile, è perché la sua esperienza e le limitazioni di cui soffre gli rendono difficile trovare un senso nella nozione di intensità accresciuta della mente. Ed è questa la chiave di tutte le religioni”. L’Outsider, il saggio d’esordio scritto tra le austere sale del British Museum che aveva portato il poco più che ventenne Colin Wilson dal vagabondare senza dimora tra i parchi e le brughiere inglesi, al successo - guadagnandogli la fama di “primo scrittore esistenzialista inglese” -, era uscito da appena un anno; l’autore si sentiva tuttavia insoddisfatto: parecchio materiale non aveva trovato posto tra i capitoli di quel volume che “avrebbe dovuto essere lungo almeno il doppio e organizzato con maggior cura”. Nacque così Religione e ribellione, un approfondimento ed una estensione dei temi trattati nell’opera prima, a partire proprio dalla caratterizzazione dell’outsider, colui che - a metà strada tra l’uomo e il superuomo nietzschiano -, è in grado di vedere oltre le convenzioni, dotato di una profonda capacità di analisi, incapace di farsi illudere dal sistema di regole sociali a cui l’individuo medio si adatta: “Il modo di pensare dell’outsider si chiama esistenzialismo. Ma potrebbe essere facilmente definito religione. È un sistema di pensiero che, come quello religioso, considera l’uomo coinvolto nell’universo, e non solo uno spettatore e osservatore […] L’esistenzialismo afferma che l’aspetto più importante dell’uomo è la sua capacità di cambiare se stesso […] L’outsider è un uomo che lotta per il potere a dispetto della propria complessità per contrastare la civiltà che lo condiziona e cerca di distorcere la sua identità”. Pubblicato nel 1957, questo secondo saggio non solo non riuscì a ripetere l’exploit del suo predecessore, ma venne stroncato dalla critica e cadde rapidamente nel dimenticatoio. Appesantito da una scrittura prolissa e ridondante, il testo non è solo privo della originalità de L’Outsider, ma risulta anche difettare della visione filosofica coerente e della chiarezza di intenti che avevano reso così brillante l’esordio letterario del giovane scrittore. Resta riconoscibile la cifra stilistica di Wilson, la sua capacità di tracciare accostamenti spesso inconsueti tra i pensieri, le biografie e le opere di scrittori, filosofi, religiosi - da Rainer Maria Rilke a Arthur Rimbaud, da Jacob Böhme a Søren Kierkegaard, passando per Agostino d’Ippona, Blaise Pascal, George Bernard Shaw, Ludwig Wittgenstein -, che pure sembra avvitarsi, in questo testo, in una sorta di compiaciuto citazionismo. Anni dopo, lo stesso scrittore ne avrebbe riconosciuto alcuni dei limiti principali: “Parlavo dell’outsider come se fosse uno specifico tipo di essere umano, come un eschimese o un cannibale. La verità è, ovviamente, che la maggior parte delle persone contiene in sé un elemento di ‘outsiderismo’, un senso di alienazione dalla società […] Mi rendo conto adesso che questo uso costante del termine ‘outsider’ dà al libro una patina di eccessiva semplificazione”. Eppure sono proprio quelle rotte inusuali tracciate tra sistemi di pensiero anche lontani tra loro, quei percorsi tortuosi, l’analisi letteraria delle opere degli autori riportati ad affascinare, lasciare segni, promemoria su intere bibliografie da recuperare, e a donare al lettore la consapevolezza di aver condiviso il girovagare di una mente del tutto peculiare.