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Renato Rascel

Renato Rascel

Renato Rascel ha attraversato svariati decenni del Novecento, tanto da essere personaggio noto a un ventaglio di generazioni tutt’ora viventi che va da chi oggi di anni ne ha cento, fino a chi ne ha quaranta. Ha attraversato anche i generi dello spettacolo, tanto da rendere difficile come definirlo. Attore? Autore? Comédien? Comico? Cantante? (vinse il festival di Sanremo 1960). Ma anche ballerino, batterista... Nato a Torino nel 1912 da un cantante d’operetta e una ballerina, Renato Ranucci, così all’anagrafe, è figlio d’arte e figlio del Novecento. Attraversa per questo, il genere del “Varietà” (arte varia, appunto) che in qualche modo raccoglie l’eredità del Cafè chantant, per poi ritrovarsi nell’ambito più scalcinato del genere detto “avanspettacolo”, la cui decadenza è raccontata in molti film, da Vita da cani (1950, Monicelli) a Polvere di stelle (1973, Alberto Sordi), oltre a tante trasmissioni Rai, a partire da Bambole, non c’è una lira! (Rai1, 1977, Antonello Falqui). In nessuna di queste operazioni compare Rascel, che quella dura palestra dove solo i più forti resistono, dove è vitale saper fare un po’ di tutto, l’aveva conosciuta bene. Il suo primo segnale di affermazione era arrivato con un’operetta, Al cavallino bianco, nel 1933. Rascel diverrà poi colonna portante della commedia musicale targata Garinei e Giovannini (da riguardare lo strepitoso duetto con un Proietti quasi sconosciuto nel numero Lo mundo è fatto per noi tratto da Alleluja Brava Gente, 1970). Nel frattempo avrà costituito la sua cifra stilistica che andrà ad incarnarsi in un personaggio scombinato nel parlare e nel vestire, stralunato, canterino, infantile e intriso di nonsense: quel personaggio che abbiamo conosciuto in televisione con l’innocente e poetica canzone nella quale ci si chiede “dove andranno a finire i palloncini, quando sfuggono di mano dei bambini”. Che a pensarci bene parla della morte, di come spiegarla a un bambino. Al cinema interpreterà una lunga serie di film trascurabili ma saprà farsi apprezzare in veste patetico-grottesca nel gogoliano Il Cappotto (1952, Lattuada), oltre che in Questi fantasmi (1954, Edoardo De Filippo) e in Policarpo, ufficiale di scrittura (1959, Soldati). Come comico cinematografico brillerà forse unicamente in Un militare e mezzo (1960, Steno) assieme ad Aldo Fabrizi, suo perfetto contraltare. Tante apparizioni televisive soprattutto da quando la Rai inizierà a trasmettere le commedie musicali. La sua ultima apparizione teatrale sarà a fianco di Walter Chiari nel beckettiano Finale di partita. Dopodiché, nel ’91, seguirà i palloncini della canzone, andandosene “a spasso per l’azzurrità”...

Ecco una bella occasione persa. Quella che poteva essere una biografia da far sconfinare nel territorio del Saggio di costume con richiami alla cultura di massa, da corredare con la giusta dose di aneddotica da somministrare –possibilmente - con spirito di condivisione, magari con valutazioni critiche e cenni di carattere storico e sociale, si rivela essere – già dall’introduzione - una ben più che noiosa elencazione dalla linearità cronologica pedissequa, di date, nomi, luoghi. Sprazzi di analisi o di disamina del contesto riportato in Renato Rascel – Un protagonista dello spettacolo del Novecento, si affacciano a tratti, senza mai andare al di là dell’aspetto puramente nozionistico. Senza lasciare mai trasparire la visione dell’autrice. Disamine ingessate accompagnate da una quantità estenuante di note a piè di pagina stampate in caratteri microscopici. Il lavoro di Elisabetta Castiglioni sembra una diligente ricerca propedeutica all’eventuale successiva (e qui assente) composizione di un quadro, di un ritratto. Anche riguardo la sempre necessaria aneddotica: perché riportarla nelle note e non in un testo discorsivo? Semplicemente per indicare dove, come, quando e da che contesto è stata estrapolato quell’episodio senza commentario? Senza evocarne il significato o azzardare un’interpretazione. Quella riportata nelle fredde pagine, ripeto, è una ricerca propedeutica, dopodiché manca la scrittura, manca la mano di un autore, la sua visione e l’elaborazione dei dati acquisiti. Qui ci si ferma all’appoggio documentale, valido in quanto tale, ma nullo ai fini della narrazione che dovrebbe essere invece il fine ultimo di una pubblicazione, di qualsiasi genere essa sia. C’è chi riesce a fare narrazione anche parlando di ingegneria meccanica, di matematica o di Formula 1. A non riuscirci con la storia dello spettacolo in generale e con la storia di un’esistenza in particolare ce ne vuole. Ed è un vizio tutto figlio di un’impostazione accademica. Elisabetta Castiglioni è dottoressa di ricerca di Storia, teoria e tecnica dello spettacolo e, purtroppo, si percepisce. Perché irreggimentare un pezzo di cultura popolare in un rigido schema tassonomico condannando “l’elaborato” alla freddezza asettica del compitino, della tesina da sottoporre al docente di turno? Alla fine della logorante lettura, torniamo all’introduzione, anche questa divisa in paragrafi: a) varietà e avanspettacolo b) rivista c) etc., etc... Ma come si fa a non essere discorsivi e inclusivi nemmeno in un’introduzione? Forse lo capiamo subito dopo con ciò che segue l’introduzione stessa: una nota. La prima delle 384 (dicasi trecentottantaquattro). Recita: “Il presente volume è tratto parzialmente dalla mia tesi di dottorato (...)”. Ah, ecco... scrivere libri non è la stessa cosa. Il Piccoletto avrebbe detto, “Sì, Bònaseeera!!!...”.