
Nella metafisica del quotidiano, che è poi anche un elenco di idiosincrasie, sono centrali le dimensioni dello spazio e del tempo, il loro continuo, ritmico contrarsi e dilatarsi. Il costante avvicendamento di luce e ombra, di giorno e notte, di alba e tramonto vissuto nel corso del transito terreno, diviene lungo la via motivo per lasciar vagabondare i pensieri alla ricerca di una verità sempre invocata tra gli antri angosciati dell’incomprensione fino a quando “Viene alla fine l’atto degli atti netti/ che sfrondano l’intrico di ramaglie - / il sovrappiù. / Viene la conta delle storie da spuntare / via via dal novero dell’esistente - / ora che arrivano voci non spurie”. Anche se celata, come le buche nel terreno coperte da frasche, lungo il percorso vi è sempre un’inserzione di pensiero ravvisabile sottotraccia e ci si inciampa: “Viene il sentiero che adesso si aguzza: / ammonticchiando terra / come un forzato scavo. / Perché il sentiero inclina verso il basso / togliendo vista / a destra, / a sinistra”. E pur tuttavia il mesto senso di irrisolutezza che pregna i versi esprime un modo di misurarsi con il limite del presente che resta di fatto invalicabile. Significa venire ai ferri corti con il senso del rapporto con il tempo, approdare alla testimonianza estrema dell’indissolubilità del vincolo che ad esso ci lega: “tutto si imbroglia qui, nel groppo corto/ di un attraversamento. / Sparisco nella gloria piana di esserci / stato per un momento”. Tutto dunque si risolve in un vissuto che ci appartiene per il poco che può valere ciò che resta del contatto fugace che ad esso ci unisce in maniera insopprimibile e invincibile: “Voglio pensare che al pari di me/ non ti potrà guardare nessun altro/ né riconoscerti erba in un sole/ di sabbia, dì nell’antro/ del tempo che ci mastica mutandoci/ in tetro bianco: mèstica”…
Nella sua ultima raccolta poetica, Alessandro Niero – docente di letteratura russa presso il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture straniere moderne dell’Università di Bologna, autore e traduttore di numerosi libri di poesia – fa letteratura in punta di fioretto. Il libro, denso e ricco di suggestioni, racchiude componimenti di poesia alta e raffinata. La qual cosa, non apparendo sforzata, conferisce credito e valore all’opera. L’accurata scelta delle misure metriche e delle sonorità dei versi, delle rime e delle paronomasie, non costituisce la mera ostentazione di una ricercatezza formale, il vezzo di ammaliare lo sguardo o l’orecchio di chi legge. Ma la fatica di porre un argine solido e rilevante entro il quale il dramma della fugacità del tempo possa venire rappreso e circoscritto insieme con la profonda necessità di elevare una pronuncia piena e nuova. La scelta dell’autore di ricomporre quanto risulta ormai dolorosamente scomposto e furiosamente annodato nel corso della traversata del presente, come pure la ricerca di disinnescare la minaccia del fatale disorientamento che ne consegue, non tradiscono mai l’estrema attenzione formale della declinazione dei versi. Nemmeno nei tratti in cui lo spiraglio di luce sembra meno vicino. Per tale motivo, la lettura induce il lettore a sostare in meditazione sulla parola, lo spinge a cercare un varco nell’intricato sistema di assonanze e dissonanze, di endecasillabi e forme ibride. Ma poiché ogni buon libro di poesia dovrebbe sempre indurre a tale confronto con la parola, ci pare opportuno assegnare al libro il pieno riconoscimento che merita.