
Attingendo dalle Osterie che Slow Food ogni anno accoglie in seno, si compone un repertorio di 370 ricette che va a coprire non solo tutte le regioni dello stivale, ma anche tutte le portate, dalle entrate ai dolci ai piatti unici. L’ordine non è per regione ma segue quello alfabetico nell’ambito dei capitoli ordinati in base alle sequenze di portata. L’indice per regione e per stagione è invece raccolto alla fine del libro consentendo più criteri di scelta nella consultazione del ricettario. La varietà indiscutibile della tradizione gastronomica italiana fa sì che la stessa ingredientistica presenti una gamma enorme quanto vasta può essere la differenza di approccio alla cucina tra Friuli e Puglia, per rimanere al solo versante adriatico. Quello della biodiversità e dell’immensa varietà alimentare, è lo specchio di un Paese dalla Storia complessa, marcata da influenze eterogenee, scambi commerciali, dominazioni inflitte prima e subite poi. Tanta contaminazione da far sì che la stessa etimologia di molti prodotti e ricette ci porta tanto nel resto d’Europa (Francia e Spagna in particolare) quanto al Medio Oriente. Trovano così spazio in questa pubblicazione, grandi classici della tradizione assieme a preparazioni più di nicchia e meno inflazionate. Contrassegnati con apposito simbolo anche i piatti vegetariani...
Cari amici di Slow Food, stavolta proprio non ci siamo. Basta aprire una qualunque pagina a caso di Ricette d’Italia che almeno un errore salta fuori. Perché il difetto sta nel manico, gli errori attengono alla base: alla terminologia che non rispetta il gergo tecnico della cucina e all’insufficienza delle indicazioni procedurali. Vero che le ricette sono state fornite dalle varie Osterie d’Italia, ma sembrerebbe non siano state scritte direttamente dai rispettivi cuochi. Perché altrimenti non si spiegherebbe la confusione – diffusa ancora purtroppo presso i non addetti - tra soffriggere, friggere e rosolare, ad esempio. Se ci apprestiamo a preparare un ragù, non si può scrivere (e non si può leggere) “rosolare” la cipolla. Rosolare viene dal longobardo “rosa” (crosta) che significa cuocere a fuoco vivace finché non si formi, appunto, una crosta. In qualsiasi cucina professionale, se si commette un errore del genere, ti fanno buttare tutto e ricominciare da capo. Soffriggere invece (contrariamente a quanto la gente comune pensa “Ah... il soffritto è pesante”, idiozia), significa mantenere il grado di umidità degli ortaggi grazie al fuoco basso affinché si sfaldino o “struggano”; tant’è che il soffritto necessita di aggiunta di acqua e, si sa, che “con l’acqua non si frigge”. Ergo, sub-friggere=mantenersi sotto la temperatura di frittura. Già che ci sono do anche un consiglio ai lettori: per ottenere lo scopo mettete sul fuoco (basso) il soffritto a freddo, salatelo subito e copritelo aiutandovi alla bisogna con dell’acqua. È inaccettabile leggere (nella ricetta del Carpione, ad es.): “Tagliate a bastoncini le zucchine poi soffriggetele in abbondante olio caldo: devono rimanere croccanti” (???) Se poi si dice di “prelevarle con un mestolo forato (meglio usare il “ragno”, strumento apposito, il mestolo forato lasciamolo alla portinaia, ndr), sgocciolatele e asciugatele su carta assorbente”, è evidente anche a un bambino che quelle zucchine le abbiamo fritte, non soffritte. Inaccettabile. Sempre per restare all’ABC, prendiamo la ricetta degli arancini: si indica di “rosolare” la cipolla (quindi sarà crostificata) poi di “aggiungere la carne e alzare la fiamma fin quando la carne sarà ben dorata”. Beh, quando la carne sarà ben dorata, la cipolla sarà carbonizzata. Già che ci sono do un altro consiglio ai lettori: quando volete dorare (“sigillare” in gergo tecnico, attraverso la “reazione di Maillard”) la carne, fatelo con solo la carne a fiamma altissima. Le cipolle e/o gli altri ortaggi, aggiungeteli a carne sigillata abbassando poi il fuoco al minimo, salandoli e coprendoli. Da lì potrà partire lo stufato, il ragù o qualche altra lunga cottura. Proseguiamo a caso: mi trovo per l’ennesima volta a ripetere che i Carciofi alla Giudìa non si sbattono a crudo per aprirli a fiore e poi friggerli. SI FRIGGONO DUE VOLTE con frittura al naturale, una prima volta per l’intero corpo, poi si estraggono, si aprono a fiore e si friggono una seconda volta in verticale col gambo fuori dall’olio. E sempre a proposito di carciofi e olio, si legge che quelli alla romana vanno messi in tegame coperti per un terzo di olio (contando anche il gambo? Un litro d’olio?), per un terzo di acqua (e siamo a due terzi di liquido) e cotti incoperchiati a fuoco basso. L’olio è decisamente troppo e l’acqua non evaporerà: troveremo un prodotto sfaldato che galleggia nell’unto... continuo a casaccio: che dire delle genericamente definite “erbe aromatiche” messe all’esterno e non all’interno della “porchetta” cotta per giunta nella birra... è un “maialino”, non una porchetta. E non si capisce perché poche pagine prima il rosmarino venga definito “spezia”. Confondere ortaggi, erbe aromatiche e spezie è grossolano: le spezie sono allogene e per questo, storicamente, arrivano in forma essiccata. Il rosmarino fresco è nostrano ed è un’erba aromatica. La curcuma è una spezia, non il rosmarino. L’aglio è un ortaggio. C’è da chiedersi poi del perché, senza dare “dritte” particolari (e allora avrebbe senso) si inserisce la ricetta della frittata di cipolle, sbagliando ancora peraltro: “Rosolate le cipolle finché non diventino trasparenti”. Versione corretta?: “Appassire le cipolle mettendole nell’olio a freddo a fuoco molto basso coprendole e aiutandovi eventualmente con del liquido”: così diventano trasparenti, non rosolandole... È andata tanto bene con la guida Slow wine 2022 e con Osterie d’Italia 2022 ma stavolta non ci siamo proprio. Si legge in prefazione poi che le ricette tradizionali sono state “calate nel nostro tempo”: aggiungere le uova alle paste “farina e acqua (...) per renderle più croccanti” significa fare la pasta all’uovo. Punto. Dicendo così addio alla tradizione delle paste acqua e semola di fattura meridionale, null’altro. (A proposito: la “farina di grano duro” non esiste, si chiama “semola”, la farina è per definizione di grano tenero). E a proposito di pasta, dire che alcune versioni della “amatriciana” contemplano la cipolla è un'altra svista: la “amatriciana” si fa in un modo solo. Quella con le variabili che si fa a Roma si chiama “Matriciana” e attraverso la distinzione di nomenclatura hanno diritto d’ingresso, nella seconda, una foglia d’alloro, l’aceto, la pancetta, l’aglio, la cipolla... ognuno la fa diversa, basta che non la si chiami “Amatriciana” ma “Matriciana” o, meglio ancora, “Matricianella”. E su questo la diatriba si è conclusa da anni in buona pace tra Roma e Amatrice. Da agliofilo convinto (l’aglio dipende da come lo si gestisce) ne ravviso comunque un uso a volte sbagliato, a volte eccessivo. Vedasi la ricetta Carne cruda: per 5 etti di carne, 6 spicchi d’aglio, a crudo per giunta. Non mi sembra una grande attualizzazione... Capisco che da un po’ di tempo a questa parte quella che sto per proporre può sembrare un’idea bizzarra: e se i libri di ricette li facessimo scrivere ai cuochi?