
Un bel giorno, dopo il login su Facebook, un po’ annoiati e sempre curiosi, ecco un nuovo gioco: #10YearsChallenge. Le regole: scegliere una foto dal proprio archivio digitale vecchia di un decennio e un’altra recente, postarle entrambe e sottoporsi ai commenti degli amici. Scopo: raccogliere opinioni su quanto si è invecchiati, sull’assurdità del taglio di capelli ormai “out” o sulla calvizie, sfoggiare orgogliosamente le rughe oppure, nei casi migliori, ostentare la freschezza inalterata del volto. Milioni di utenti nel mondo hanno partecipato alla sfida; quanti, fra questi, si saranno interrogati sul servizio prezioso che hanno reso a Mark Zuckerberg? Presto detto: fornire all’algoritmo dati su dati, miliardi di miliardi di byte, che perfezioneranno le app di riconoscimento facciale e altre diavolerie delle quali oggi è difficile immaginarne l’utilità. Il gioco fa leva sugli automatismi che spingono chiunque a partecipare alla grande conversazione collettiva sui social network. Non solo: il nostro database esistenziale ha le porte spalancate. A chiunque. E cosa succederà quando sopraggiungerà la morte? Mentre la materia organica segue le regole naturali della vita, lo “spettro tecnologico” permane. Ogni giorno sui social si raccontano sia dettagli insignificanti sia porzioni di vita assai personali, come fanno i cosiddetti “cancer blogger”, uomini e donne in lotta contro la malattia che aggiornano sulle terapie e sulle speranze in cerca di sicurezza oppure per documentare. La letteratura e la storia ci hanno raccontato di personaggi dalla memoria prodigiosa; noi esseri umani del XXI secolo, più distratti e indaffarati, affidiamo la funzione mnemonica agli strumenti della rete. Gli spettri digitali, però, sono inesorabili: possono confortare con dolcezza oppure riacutizzare il lutto; in ogni caso, non si curano della nostra reazione…
Tra le varie elucubrazioni che Leopold Bloom, il protagonista dell’Ulisse di Joyce, produce nell’arco di una giornata, c’è anche quella del grammofono: sarebbe necessario - sosteneva - che ogni tomba, accanto alla fotografia, fosse dotata di quel dispositivo, così da ricordare meglio la persona che lì giace. A distanza di un secolo, i cimiteri sono inalterati; viviamo, invece, una dimensione social della memoria che va ben oltre la durata di un disco. Sondare le conseguenze filosofiche dei ricordi digitali, della memoria come dell’oblio, è lo scopo del lavoro di Davide Sisto che si occupa da tempo del tema della morte e delle sue interpretazioni nell’era digitale, così come delle proiezioni dello stesso fenomeno verso l’era prossima, quella del postumano. Cosa succederà, infatti, quando i processi di “mind-uploading” permetteranno di “scaricare i dati” della nostra mente su un supporto diverso dal cervello? Oppure quando potremmo utilizzare tutte le funzioni degli attuali smartphone senza realmente possederne uno, perché avremo chip e sensori installati nel tessuto cerebrale e muscolare? Si tratta di scenari che suonano familiari ai fan della serie Black Mirror, ampiamente citata da Sisto, a chi ha letto il romanzo di Don DeLillo Zero K o il saggio di Mark O’Connell Essere una macchina. Cosa fare, dunque, una volta presa consapevolezza della complessità e, talora, dell’inafferrabilità dello scenario? Probabilmente impegnarsi e seguire i consigli pratici dispensati in conclusione del libro. E non smettere di riflettere sull’opportunità di spalancare le porte della memoria; tra i rischi ce n’è uno incalcolabile: perdere lo slancio verso il futuro.