
25 novembre del 1970. Yukio Mishima si toglie la vita con un suicidio rituale nella tradizione dei samurai, dopo aver occupato il ministero della difesa giapponese con un gruppo di paramilitari. Il suo gesto non è il risultato di un momento in cui la rabbia o la disperazione hanno il sopravvento sulla lucidità della mente, ma l’apice di un processo di maturazione intellettuale ed emotiva, nella convinzione di fare qualcosa di importante per il suo Paese, desiderio che muove da sempre la determinazione del noto intellettuale. Mishima vuole difendere le tradizioni del Giappone contro l’occidentalizzazione imposta da una crescita economica inarrestabile, si oppone all’affermarsi di una società dove l’individuo viene privato della sua personalità a favore della standardizzazione dei costumi e dei consumi, nel suo voler recuperare una dignità culturale che tende a svanire difende un sentimento puro condivisibile anche dagli occidentali stanchi della massificazione. Ma il suo amore per il bello identificato nell’arte e il suo carattere intellettualistico lo rendono inadatto a guidare l’occupazione del ministero giapponese della difesa, attraverso l’atto supremo del suicidio rivela così fino a quale limite è giunta la sua profondità emotiva. Mishima è convinto che solo impugnando le armi potrà difendere gli ideali per cui ha vissuto, ma nel suo amore per la filosofia di vita dei samurai ha forse dimenticato che erano proprio questi straordinari combattenti a ritenere che la strategia migliore fosse usare la propria forza per evitare inutili conflitti, dove una delle parti avrebbe perso la vita. E infine l’amore per la tradizione e il rispetto della sacralità dell’arma bianca, lodevoli quanto si vuole, nel mondo industrializzato non possono certo rappresentare un riferimento assoluto. Mishima attende che il suo Paese riveli la determinazione per opporsi al dilagare dello stile di vita occidentale, ma sono le vicissitudini storiche a rendere inevitabile tale cambiamento; nel caso del Giappone, come per la Germania, è l’imposizione di una spesa contenuta per il riarmo a dirottare negli anni Cinquanta e Sessanta ingenti investimenti nello sviluppo produttivo e tecnologico sul modello europeo e americano. A differenza degli Stati Uniti dove la corsa agli armamenti della Guerra Fredda sta penalizzando il benessere sociale. L’America, nel momento in cui il Giappone sta crescendo, combatte in Corea e poi in Vietnam senza preoccuparsi delle conseguenze della sua linea di politica estera...
Henry Miller dedica la sua opera al ricordo di un intellettuale che ha rappresentato un eccezionale esempio di fedeltà e di totale abnegazione ai valori della società giapponese tradizionale, dove l’uomo non deve temere le conseguenze del suo comportamento, almeno che non si renda conto di aver commesso un errore. È difficile anche solo immaginare quali possano essere state le motivazioni più profonde del gesto estremo di Mishima, che al di là dell’intento politico ha assunto un valore puramente culturale. Miller non fa ipotesi al riguardo, non è nemmeno interessato a raggiungere un tale livello di analisi del comportamento del coraggioso intellettuale, si limita a presentarlo al lettore e a immaginare su quali temi avrebbe riflettuto insieme a lui se avesse potuto frequentarlo a lungo. La prima parte dell’opera si concentra sulla personalità di Mishima: il suo essere fanatico in senso positivo che si rivelava nell’estrema determinazione nell’impegnarsi per cambiare una realtà che non accettava, l’assoluta serietà con cui difendeva i suoi ideali, il suo inguaribile amore per il Giappone. Seguono ipotesi di dialoghi che avrebbero potuto svolgersi tra i due scrittori. Miller immagina di incontrare Mishima in una sorta di Limbo della religiosità orientale, in attesa di una inevitabile rincarnazione gli chiederebbe se ha ancora desiderio di vivere una vita non comune, di chi vorrebbe essere figlio e cosa pensa veramente del mondo in cui ha vissuto, fino a immaginare di raggiungere persino lo spazio per cavalcare i secoli, in un futuro in cui l’uomo, ormai totalmente libero dai limiti imposti dalla materia, può vivere solo in funzione del pensiero della mente. Ne risulta un’opera assai piacevole da leggere, di poche pagine e scorrevole, ma intensa nei significati; Miller attraverso l’esempio di Mishima, che diviene indubbiamente l’archetipo supremo dell’onestà intellettuale e su questo non si può discutere al di là che si condividano o no le sue posizioni, sollecita importanti spunti di riflessioni che un lettore attento e preparato non può disattendere. Henry Miller è nato a Yorkville, un quartiere di Manhattan, il 26 dicembre del 1891. Pittore, scrittore, saggista e report di viaggio, è stato ricordato principalmente per la rottura con le convenzioni letterarie del suo tempo, incline a una forma di romanzo che unisce in sé autobiografia, riflessione filosofica e critica sociale. Spesso è stato ritenuto osceno per gli espliciti riferimenti sessuali contenuti nelle sue storie. Autore di numerose opere, tra le più note Tropico del Cancro (1934), Primavera vera (1936), Tropico del Capricorno (1939) e Il colosso di Maroussi (1941). Lo scrittore ha trascorso l’ultimo periodo della vita in California, è morto a Los Angeles nel 1980.