
Campara, 24 dicembre 2016. Campara si trova circa seicento metri sopra il livello del mare: dieci anni fa in questa stagione la neve impediva qualsiasi spostamento e costringeva gli abitanti a restarsene murati in casa. Gli anziani ne avvertivano l’arrivo nelle giunture delle articolazioni e provvedevano a riempire la dispensa, così da resistere, al caldo, senza alcuna difficoltà. Ora quelle nevicate sono solo un ricordo, anche se l’acqua continua a gelare nelle tubature e l’ANAS sparge i sacchi di sale grosso sulle strade, per evitare che si formino lastre di ghiaccio pericolose al transito delle auto. Lia ha trentacinque anni e sta aspettando Fabio, seduta sulla panchina dell’unica fermata che l’autobus fa in paese. Non ha davvero voglia di fumare ma, più per muovere le mani che per altro, estrae il porta-tabacco, mentre solleva lo sguardo e nota le case intorno, tutte a due piani e tutte disabitate. Per questa ragione le è impossibile il gioco cui sempre si dedica: indovinare le vite degli altri. A casa sua, a Roma, spesso resta al buio e spia i movimenti di chi vive dietro le finestre delle case di fronte alla sua. In particolare, è interessante la terza finestra del quarto piano della palazzina a destra della corte interna: dietro al vetro riesce a scorgere una libreria Billy dell’Ikea identica alla sua, una lampada a piantana e un bonsai poggiato sul davanzale. L’uomo che abita quell’appartamento ha la barba incolta e, di solito, la domenica pomeriggio ascolta musica elettronica a basso volume. Mina la chiama “la spiona” e la sgrida, dicendo che non sta bene ficcare il naso nelle vite altrui. Lia spera che Mina legga il post-it attaccato al frigo, nel quale le ricorda di cambiare l’acqua a Dory. Mina ha una bocca enorme e carnosa; lei da Campara se ne è andata quando aveva diciotto anni e non è più tornata, ad eccezione di un’unica volta. Ecco Fabio in arrivo sulla solita Panda 4x4 verde oliva con l’adesivo della rosa dei venti, che lei stessa ha attaccato dietro al cofano tempo prima. Lia riconosce l’auto da come affronta l’ultima curva. Quando poi sale, sente il solito odore di legna di pino, muschio e fumo di erba. I sedili posteriori dell’auto sono occupati: Francesco e Raffaele la salutano, mentre la terza persona è immersa nell’ombra…
Il futuro è al centro del romanzo di Sara Maria Serafini – autrice milanese di nascita ma calabrese d’adozione, alla sua terza prova come romanziera – un futuro del Ventiduesimo secolo formato da una comunità di persone infallibili, capaci, nella maggior parte delle occasioni, di operare la scelta più consona, quella giusta. Una società in cui il principale obiettivo perseguibile è l’eliminazione di ogni devianza, con particolare attenzione nei confronti di quella che viene definita “senza movente”, per curare la quale si ricorre alla pratica della rigenerazione: riportare il soggetto dell’azione al giorno precedente il verificarsi della supposta devianza, attraverso un salto temporale che copre un intervallo piuttosto lungo. Ecco ciò che accade alla protagonista, Lia che, a seguito del crimine commesso, si ritrova catapultata nel 2100 e comincia la sua nuova esistenza, dopo aver assunto un altro nome: Amalia. È un mondo nuovo quello abitato da Amalia che, tuttavia, continua a vivere continui fenomeni di déjà-vu che la mantengono abbarbicata al suo passato. Quello raccontato dalla Serafini è infatti un mondo distopico sui generis, nel quale l’occhio di bue, diversamente da ciò che è consuetudine, è puntato maggiormente sul passato, piuttosto che sul futuro. Sì, perché il passato non può essere nascosto e, per quanto ci si sforzi a ignorarlo e a relegarlo in un angolo, dove si spera finisca coperto dalle ragnatele e dimenticato, è la base e l’unica origine di ogni presente e, in quanto tale, è ingombrante come un macigno e impossibile non finire con il farci i conti. Una storia difficile e a tratti scomoda quella di Lia/Amalia, tutta giocata sul concetto di tempo a cui si legano inevitabilmente il peso dei ricordi e la consapevolezza che, in realtà, tornare indietro e rimediare ai propri sbagli non è possibile. Il dolore, gli errori che vengono commessi e ripetuti, lo scorrere del tempo e l’incapacità di trattenerlo, le occasioni perse, la necessità di poter godere di nuove opportunità: temi affrontati attraverso una lettura complessa ma intensa; pagine intrise di malinconia che stimolano profonde riflessioni e sottolineano l’esigenza condivisa di poter godere di un po’ di tempo in più, magari anche solo per abbracciarsi una volta ancora. Vale la pena sottolineare anche la veste grafica del libro, pubblicato su cartoncino di pura cellulosa ecologica e carta bulk extralusso a grammatura 120. Una vera raffinatezza.