Annamaria L. G., insegnante di scuola elementare, ce l’ha ancora nelle orecchie il ticchettio di quei tacchi, il rumore ritmico e veloce sull’asfalto, la corsa disperata di quella donna nelle strade del paese, inseguita da tre ragazzi, fino alla macelleria dell’Ersilia: lì la sua fuga si è fermata, davanti al bancone, dove di fronte agli occhi terrorizzati della macellaia è stata freddata da quindici colpi di pistola calibro nove. La vittima si chiamava Candida, e tutti sapevano che era una imprenditrice, che aveva delle società in campo edile, conoscenze importanti nel mondo degli affari e della politica, che “faceva i soldi”. E invece pare che dietro la facciata della donna manager si nascondesse la vedova di un boss, che dal marito, ucciso a sua volta qualche anno prima, aveva ereditato il potere: una “capatosta, una dura” che in quel centro della pianura padana era a suo agio, conosciuta e rispettata come una “signora per bene”, ma che forse in quella faccenda degli appalti e delle costruzioni “si prendeva troppi lavori e lasciava gli altri a bocca asciutta” e magari aveva fatto uno “sgarro a qualcuno”. E Giuseppe S. detto Peppe, era un suo uomo: uno che sembrava saperla lunga, con le idee chiare, capace di anticipare la posizione di una stazione ferroviaria dell’Alta Velocità prima ancora che il governo la mettesse nero su bianco, ed avviare in quei terreni una speculazione edilizia; uno che girava sempre su “un Mercedes blu scuro coi finestrini dietro oscurati, come un politico”. E a cui due anni prima avevano sparato in un cantiere, forse come primo segnale di avvertimento alla signora Candida…
“Questa strada l’ho percorsa centinaia di volte […]. Autostrada A1 fino a Parma, poi un pezzo di via Emilia al contrario, verso la provincia di Reggio […]. Cantieri su cantieri. Da una parte e dall’altra. Quello infinito della TAV che scorre parallelo all’autostrada. E poi, le campagne. Aree edificabili in vendita. Quartieri residenziali di palazzi e villette recintati d’arancione, a segnalare i lavori ancora in corso. Ruderi di case coloniche abbandonate che presto verranno rase al suolo per far spazio a nuovi insediamenti. Nuovi cantieri, nuove villette, nuovi paradisi residenziali per famiglie. Nuovi centri commerciali. […] Non si può essere felici in posti come questi”. Cemento. Cemento che ricopre spazi verdi, che strazia territori, che deturpa. Che distrugge vite. Simona Vinci, milanese di nascita, bolognese di adozione, autrice del doloroso, autobiografico Parla mia paura, è stata già vincitrice del Premio Campiello nel 2016 con La prima verità. Rovina è stato scritto con la sacrosanta rabbia della spettatrice del consumo del territorio sregolato e selvaggio che ha saputo trasformarsi in osservatrice attenta delle dinamiche che portano l’avidità dei pochi a prevalere sull’interesse comune, generando fiumi di denaro che scorrono sulle teste di lavoratori senza tutele e malpagati, di acquirenti che si ritrovano ad abitare case edificate in fretta, con materiali spesso scadenti (quando non a contemplare costruzioni su cui hanno investito risparmi e progetti di vita non terminate per provvedimenti di sequestro), di cittadini che vedono lo strazio dei territori cementificati nel nome del progresso, dello sviluppo economico: parole dietro cui si nascondono termini e concetti come corruzione, malaffare, avidità, criminalità, saccheggio del bene pubblico, disgregazione del tessuto sociale. I pezzi del puzzle si compongono man mano che i protagonisti parlano, si confessano, lasciano fluire parole che sgorgano inarrestabili come sangue dalle ferite, narrando pezzi di esistenza risucchiati nel gorgo delle betoniere, fino a comporre una vera e propria orazione civile destinata a suscitare consapevolezza ed indispensabile indignazione.