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Russki Mir: guerra o pace?

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Se per capire l’indole del popolo russo si volesse risalire agli albori della Federazione Russa di oggi, ex URSS di ieri, ex Impero zarista, probabilmente gioverebbe non poco ricordare l’origine vichinga dei primi insediamenti e la dominazione mongola successiva per avere la certezza che si tratta di un popolo che ha da sempre avuto bisogno di una guida decisa, anche sanguinaria, ma sicuramente autoritaria. La geografia non premia, infatti, la Federazione Russa che si estende per decine di migliaia di chilometri e mette insieme culture, tradizioni, etnie differenti, a volte in contrapposizione fra di loro: la presenza di un centro forte aggregante è sempre stato un tratto caratteristico della storia russa, tanto quanto l’insofferenza per gli Zar, unico catalizzatore capace di tenere tutto sotto controllo e far sviluppare, anche se in modo diseguale, le potenzialità di quelle terre e di quel popolo. Però peggio di quell’insofferenza c’è stata soltanto la delusione per la finta opzione democratica seguita alla Rivoluzione d’ottobre del 1917 e, soprattutto, per la dissoluzione dell’URSS che ha portato i comunisti a svestire, in poche ore, l’abito del rivoluzionario per indossare quello del banchiere corrotto. La fine della Repubblica Sovietica, decretata da Gorbaciov, non ha determinato la tanto sospirata affermazione di una democrazia aperta e non totalitaria, ma ha portato soltanto l’affermazione di altro caos, altra corruzione, altri disordini. Perché Gorbaciov è stato uno zar con la z minuscola, incapace di orientare l’indole del popolo russo, comunque incline ad atti di eroismo e di giustizia, troppo ricco di personalismi centrifughi. Si tratta infatti di un popolo generoso e ospitale, aperto, che però ha bisogno di affidarsi ad una guida per gestire al meglio i periodi di pace, più che quelli della guerra…

Non a caso Mikhail Shishkin, vincitore di diversi premi letterari russi nonché del nostro Premio Strega Europeo nel 2022 con Punto di fuga (pubblicato sempre da 21lettere), è considerato il maggiore autore in lingua russa vivente: caustico, freddo, ma allo stesso tempo passionale e preciso, ricostruisce con maestria gli ultimi vent’anni della storia del suo Paese natale, quello dal quale si è forzatamente allontanato in aperto dissenso con le sue politiche e la sua cultura. Nonostante la distanza (oggi vive in Svizzera), nella sua narrazione si legge una vena malinconica e rabbiosa per un Paese e per un popolo che ama e odia allo stesso tempo: la sua analisi, tagliata con l’accetta, a tratti antropologica, a tratti sociale, a tratti anche storica, è un vivido saggio di cosa vuol dire oggi essere russi, partendo da una carrellata a volo d’uccello sull’intera storia della sua sterminata terra. Per ragioni varie, i secoli passati sono riassunti in poche pagine, con analisi strumentali alla sua idea di fondo (il popolo russo ha sempre oscillato fra la guerra e la pace, ma ha avuto più delusioni dai periodi di pace che non da quelli di guerra). Il libro è stato scritto nel 2019, prima della invasione dell’Ucraina operata dall’esercito russo per ordine di Vladimir Putin, eppure mantiene quella inevitabile contemporaneità che hanno i classici perché permette di capire cosa si cela davvero, o comunque una parte di quello che si cela, dietro all’essere russi. Non soltanto una lingua oggi associata a terribili eventi, ma una intera cultura. È un tentativo di riabilitazione di un popolo, proprio quando oggi è così difficile poter dire di essere fieri di essere russi. E il saggio appassionato permette di recuperare questo patrimonio e di andare al di là dei crimini odierni attraverso la ricostruzione di personaggi e storie che hanno reso grande la Russia.