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Saigon, Illinois

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Estate 1968. Jim Holder si è appena laureato e lavora in una casa di riposo per mettere da parte un po’ di soldi per il dottorato in Inglese, quando gli arriva la lettera di reclutamento. Preoccupato, risponde chiedendo lo status di obiettore di coscienza. Due settimane più tardi gli arriva la risposta: non è sufficiente una semplice richiesta, bisogna superare una sorta di esame, presentarsi davanti a una commissione e convincerne i membri di essere sinceramente pacifista e non violento. Il giorno dell’udienza Jim si pettina da bravo ragazzo, indossa giacca e cravatta e si reca all’Ufficio reclutamento, la Sezione 13 di Malta, nell’Indiana. La commissione è costituita dalla signora Factor – che ha l’aspetto di una bibliotecaria sadica, da Edwin Mulroony – che ha un negozio di ferramenta in città, e da Cappy Knight – proprietario di un night dove si possono trovare alcol e prostitute anche se non sei maggiorenne. Alle provocatorie domande dei tre, Jim risponde con sproloqui bislacchi pieni di paroloni e riferimenti alla filosofia e si descrive come una persona gentile, dolce, che vorrebbe contrastare la violenza con le carezze. La commissione si convince che il ragazzo è davvero un pacifista, che probabilmente è un finocchio e che ancora più probabilmente ha qualche rotella fuori posto, per cui lo destina a due anni di servizio civile. Jim viene assegnato al Metropolitan Hospital di Chicago, a pochi isolati dal lago Michigan: 900 posti letto, 18 piani e una forma che vista dall’alto ricorda la lettera H. Un luogo abitato da “tenaci infermiere dal cuore infinito, interni appassionati ma sempre carichi di lavoro, medici di turno arroganti, amministratori conniventi e pazienti spaventati e spesso perseguitati”. Qualche tempo dopo, di buon mattino il ragazzo si reca all’ospedale e fa tre colloqui, per scegliere la sua mansione: il primo presso la radiologia gastrointestinale, tra malati che vomitano legati con le cinghie e uno strano tecnico radiologo con possibili fissazioni religioso-sessuali; il secondo presso il centro ricerche, tra cani in gabbia che ululano agonizzanti e rane crocifisse; il terzo come “responsabile delle unità”, cioè impiegato nell’ufficio amministrativo che vigila sul corretto andamento della quotidianità dell’ospedale (pulizie, pasti, lavanderia e così via). Inutile dire che Jim sceglie questa mansione. Salutati i suoi nuovi superiori e preso appuntamento per l’indomani per iniziare a prestare servizio, il giovane se ne va in un bar: qui si scola sei birre e tre bicchierini di bourbon, balla con la cameriera, bacia il barista sulla testa e infine se ne torna a casa. Quando si sveglia, nel primo pomeriggio, c’è una ragazza a letto con lui. È Viki Cepak. Lei e Jim si vedono già da un po’, fanno sesso ma non saprebbero dire se si tratta davvero di amore. La ragazza è venuta a Chicago da Richland Center per fare un test di gravidanza: il suo ciclo è in ritardo di quasi quindici giorni e lei ha paura di essere incinta…

Quanto la guerra del Vietnam abbia inciso sull’immaginario collettivo, sulla letteratura e sul cinema statunitensi è talmente evidente che è banale ricordarlo. Gli esempi di cronache di guerra nella giungla vietnamita, visionarie o realistiche che siano, sono molti e spesso memorabili. Forse meno numerose ma non meno importanti le opere che mettono al centro dell’attenzione il cosiddetto “homefront”, il fronte interno, la contestazione contro la politica militare USA in Asia che l’area conservatrice all’epoca (e forse anche oggi) percepiva come un atto antipatriottico, una vigliaccheria da hippie renitenti alla leva, financo un tradimento. I romanzi che raccontano la stagione dal 1964 al 1972, quella della mobilitazione studentesca contro la guerra, della controversa presidenza di Richard Nixon e dell’entrata in campo di artisti, musicisti e attori (“Give peace a chance!”) costituiscono quasi un genere letterario a sé, con i suoi tòpoi e i suoi cliché. Saigon, Illinois – finora colpevolmente trascurato dagli editori italiani – è un esempio perfetto di questo secondo tipo di narrazioni dell’incubo del Vietnam. Nel godibile (e finora unico) romanzo datato 1988 di Paul Hoover, professore alla San Francisco State University ed editor della prestigiosa rivista letteraria «New American Writing», troviamo però una ulteriore declinazione dell’homefront di cui sopra: un microcosmo ospedaliero con le sue leggi, le sue stranezze, le sue brutalità, i suoi grotteschi paradossi. Qui il giovane Jim Holder (che è un alter ego dello stesso autore, essendo le vicende raccontate quasi tutte autobiografiche) si muove con la tipica, tenera spregiudicatezza dei giovani: organizza un aborto clandestino per la sua ragazza, intreccia nuove relazioni sessuali e personali, impara a conoscere la morte, affronta la burocrazia e la ottusità dei superiori e alla fine decide di evadere anche da tutto questo, nonostante i rischi e le incognite. L’ironia è la stella polare di Hoover, e colpisce sia a destra sia a sinistra (c’è molto di parodistico anche nella descrizione degli amici di Jim, perfetti esemplari della contestazione giovanile di quegli anni), donando al libro un sapore agrodolce. Una cartolina disincantata che ci arriva da luoghi, anni e momenti che forse andrebbero privati della luccicante patina di leggenda che ancora li ricopre.

LEGGI L’INTERVISTA A PAUL HOOVER