
Saša è in piazza, a Mosca, in un comizio politico, e grida a squarciagola, i denti gelati: “Noi odiamo questo governo!”. Con lui c’è Venja, gli occhi gonfi per i postumi di una sbornia; è il tipo che non si lascia scappare l’occasione di rispondere a un colpo di manganello con uno di bandiera, assestato dritto sulla testa dell’ufficiale, che strabuzza gli occhi alla vista del sangue… Volano transenne contro gli Omon, soldati delle forze speciali in tuta mimetica; vengono ribaltate le auto, distrutti i negozi, frantumati i lampioni. Alla fine del corteo la strada è cosparsa di ogni tipo d’immondizia, e Saša e i suoi vengono presi e pestati per bene. Eppure Saša sa che devastare la città è un gesto inutile, tanto semplice quanto inutile. È proprio questo che gli dice Bezlëtov, ex allievo del defunto papà di Saša, ora docente universitario. Inarcando le sopracciglia e assumendo toni da saccente, il professore sottolinea proprio l’inutilità dei gesti dei manifestanti: “il vostro frenetico agitarvi ha perduto senso da un pezzo. Voi non cambierete nulla”. Meglio quindi avere vodka in fresco e patate nel forno e dimenticarsi una volta per tutte dello spirito russo, della grandezza di un tempo, delle sorti della Patria: queste parole si sono svuotate di significato e il popolo non è più buono a nulla. Ma non la pensano così Saša e i suoi amici, per i quali esprimere il dissenso è fondamentale, anche se la protesta non rispetta la misura. In fondo, quella “passione politica” aveva subito costituito il senso, forse l’unico, della vita di Saša. Nonostante il padre fosse un insegnante universitario, lui si considerava un ragazzo di strada. La solitudine è sempre stata una costante nella sua vita: anche quando va a trovare il nonno in punto di morte, il ragazzo continua un dialogo con sé stesso, punteggiato di riflessioni e di schermaglie verbali tutte a una voce. Morto il papà, morti i due zii, Saša si ritrova a essere l’unico Tišin ancora in vita. Nel villaggio dove vivono i nonni, dove tutti lo chiamano San’kja, cerca di venire a patti con i ricordi dell’infanzia, il periodo in cui era più spensierato, e non ingobbito, antipatico e litigioso come durante l’adolescenza. Ricorda la vita del nonno, ai tempi della collettivizzazione, della deportazione: pare che durante la prigionia, i tedeschi distribuissero pane e tabacco e il nonno scambiasse sempre il tabacco con del pane. Bisognava biasimarlo perché non lo dava gratis? Forse proprio per quel baratto ha avuto salva la vita. Quel tempo è ormai lontano, e anche il nonno si rammarica di esser vissuto così a lungo, 84 anni, e di aver assistito alla morte di tutti e tre i suoi figli. Non è vero, pensa Saša, che ai nipoti si voglia più bene che ai figli: con la nonna si sente quasi un estraneo. La solitudine è continuo oggetto di riflessione, e l’impegno politico l’unica fonte di esaltazione, anche quando la protesta si fa più accesa e Saša si ritrova scaraventato in prima linea…
Bella prova di questo scrittore che ha tanto da dire ed è tanto apprezzato, in patria come all’estero. Le riflessioni politiche sono all’ordine del giorno, quando si parla di letteratura russa contemporanea. Basti dare un’occhiata ai libri tradotti dal russo negli ultimi anni: accanto ai grandi temi degni della tradizione narrativa classica, il dissenso politico è sempre presente, tanto nei saggi quanto nei romanzi. Ma qui, in San’kja, si avverte l’eco dei grandi personaggi letterari: le continue conversazioni con se stesso, a volte autoironiche a volte amare, non avvicinano forse Saša al sognatore di Dostoevskij? E quando, in totale disaccordo con le posizioni moderate di Bezlëtov, Saša conclude che “in Russia c’è chi interpreta la verità in un modo e chi in un altro. È una carneficina, ma anche una visione superiore”, non ci sembra di sentire risuonare i passi di Raskol’nikov in una spettrale Pietroburgo? C’è un’unica nota dolente. Considerato il risultato delle recenti elezioni presidenziali, probabilmente ci toccherà leggere ancora simili invettive: “Quel governo schifoso, disonesto e ottuso, che mortificava i deboli, che aveva dato libertà a gentaglia e gentucola, perché tollerarlo? A che scopo vivere con quel governo, che a ogni passo tradiva se stesso e ogni suo cittadino?”.
Leggi l'intervista a Zachar Prilepin
Bella prova di questo scrittore che ha tanto da dire ed è tanto apprezzato, in patria come all’estero. Le riflessioni politiche sono all’ordine del giorno, quando si parla di letteratura russa contemporanea. Basti dare un’occhiata ai libri tradotti dal russo negli ultimi anni: accanto ai grandi temi degni della tradizione narrativa classica, il dissenso politico è sempre presente, tanto nei saggi quanto nei romanzi. Ma qui, in San’kja, si avverte l’eco dei grandi personaggi letterari: le continue conversazioni con se stesso, a volte autoironiche a volte amare, non avvicinano forse Saša al sognatore di Dostoevskij? E quando, in totale disaccordo con le posizioni moderate di Bezlëtov, Saša conclude che “in Russia c’è chi interpreta la verità in un modo e chi in un altro. È una carneficina, ma anche una visione superiore”, non ci sembra di sentire risuonare i passi di Raskol’nikov in una spettrale Pietroburgo? C’è un’unica nota dolente. Considerato il risultato delle recenti elezioni presidenziali, probabilmente ci toccherà leggere ancora simili invettive: “Quel governo schifoso, disonesto e ottuso, che mortificava i deboli, che aveva dato libertà a gentaglia e gentucola, perché tollerarlo? A che scopo vivere con quel governo, che a ogni passo tradiva se stesso e ogni suo cittadino?”.
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