
“Il corpo in fuga come un cavallo al galoppo”: Evita Peron, lo sente, sta per morire. Ora, a trentatré anni, è diversa, è un’altra rispetto a quella “caramella mordicchiata” arrivata a Buenos Aires nel 1935. Allora era soltanto una “cosetta fragile”, oggi invece è il potere, anche se morente. È la regina dei grasitas e dei descamisados. Per lei, in quell’ultima ora del dolore, preghiere e suppliche “sbattevano le ali come pipistrelli”. Evita ha ancora un solo desiderio da sussurrare al marito: non vuole essere dimenticata. E, allora, Peron dà ordine di farla imbalsamare. L’onore tocca a Pedro Ara, un anatomista spagnolo, il migliore. Così il corpo di Evita diventa senza fine, né pace. Diviene incarnazione e immagine del paese: dopo il golpe ai danni di Peron, infatti, ai generali trionfanti non interessa più il loro predecessore, quanto il corpo (o i corpi, perché ne saranno fatte delle copie) – le spoglie – di “quella donna”. Anche da morta, forse più di prima, continua a sprigionare una potenza assurda che si dimostra ancora capace di catalizzare l’attenzione, la devozione del popolo e di orientarne le volontà, come di travolgere e stravolgere le vite di chi con lei, la defunta, entra in contatto. Alle maldicenze su Evita, alle calunnie dei benpensanti, dei ceti alti, risponde il popolo con tutta la sua irruenza, con la sua fedeltà smisurata a quella “santa” senza eguali: “L’immediata entrata in scena di Eva Duarte rovinava la bella torta preparata dall’Argentina colta […] era l’ultima scoreggia della barbarie”. I descamisados, pur di salvarla dalla morte, compiono le imprese-voti più assurdi, la raccomandano alla Vergine. Perché “i poveri […] sono gli unici che sanno essere fedeli”. Eppure niente basta a salvarla dall’essere un corpo esanime e nomade, ma anche “un sole liquido, la fiamma trattenuta d’un vulcano”...
“Un romanzo è la sola elaborazione del lutto possibile per paesi senza verità o dove la verità è una palude e un’allucinazione, come l’Argentina e l’Italia” scrive Fabio Stassi nella prefazione al testo. Tomás Eloy Martínez (1934-2010), scrittore, critico cinematografico e giornalista argentino, ci consegna un altro romanzo (tra i tanti va ricordato proprio Il romanzo di Peron) – pubblicato per la prima volta nel 1995, mentre in Italia arriva nel 2003 pubblicato da Guanda e poi nel 2013 nell’edizione SUR – di stampo giornalistico, in cui verità e fiction si fondono e si confondono (“L’unica cosa che si può fare con la realtà è inventarla di nuovo”). Ritorna il tema della morte, caro allo scrittore. Ma è qui una fine, un explicit, che si fa eterno incipit, come in una narrazione incantata: “Evita si trasformò in un racconto la cui fine si trasformava nell’inizio di uno successivo”. Chiari e chiariti sono i modelli di partenza: Quella donna di R. Walsh, Il simulacro di Borges, L’esame di Cortázar, e ancora Onetti e Perlongher. La prosa di Martínez è classica e sapiente: le immagini e le metafore sono originali, nitide, perfette. Rendono chiaramente e magistralmente gli stati d’animo – reali o presunti che siano – le emozioni, le azioni della protagonista e di chi le gravita e le ha gravitato intorno. È la storia di un’inchiesta, d’una ricerca di tante ricerche: del potere, della bellezza, del riscatto... in vita; della pace, della libertà, dell’eternità, della santità post mortem. È il racconto d’una straordinaria – umana, tutta femminile – irrequietezza. È il blasfemo che sposa il sacro. È un miracolo dissacrato. La ricerca, attraverso un cuore di donna, d’un senso, di un’alchimia che, nello svelare Evita, smascheri la vita stessa, nel suo intimo. Quella di Evita, infatti, è una storia che parla di noi, come ogni “classico”: nelle sue pieghe, nelle sue viscere, ci riconosciamo tutti, senza differenze. Ci eguagliamo: santi e ladri. Perché “scrivere, […] soprattutto, ha a che fare con il desiderio”, e il desiderio è dato dall’umano bisogno di colmare per poter essere e amare.