
L’ispettore Colajacono vola in Irlanda a trovare Guido, il figlio minore che da anni si è stabilito lì ad occuparsi di musica. Per questo viaggio rinuncia ai corposi festeggiamenti organizzati a Gragnano per i duecento anni dei maccheroni. Un tripudio di primi conditi con sughi che avrebbero attentato anche le più salde coronarie; un susseguirsi di gusti salati e dolci che Colajacono rimpiangerà. Il suo viaggio, infatti, non inizia per niente col piede giusto. Sbarcato dal traghetto, si ritrova solo senza spiccicare una parola di inglese. Del figlio nemmeno l’ombra. Con qualche lira irlandese (siamo nel 1989, l’euro è di là da venire) si paga una massicciata di patate ed una birra, il giusto per non fargli sentire la mancanza della pasta di Gragnano. Mentre aspetta sprofondato nell’incapacità di comunicare, si ritrova davanti Demos Gotti, amico del figlio. Un italiano trapiantato in Irlanda da venti anni che di mestiere fa una sorta di mediatore culturale per tutti i connazionali che si spostano lì. A Colajacono non piace quel suo zelo da zerbino e ancora meno gli piace la sua grottesca tirchieria. Sta quasi per pentirsi di aver lasciato l’amata Gragnano quando, ritrovatosi col figlio, che fino ad allora aveva sentito sempre per telefono da che era andato via, inizia ad interessarsi a quel Paese. Buttata da parte la guida Lonely planet e dimenticato per un po’ il caro Orazio che porta sempre con sé, Colajacono parte per la sua personale esplorazione culturale. Scopre il cibo di cui diventa ghiotto oltremodo e l’abitudine di pasteggiare con la birra nera; comincia ad apprezzare i posti e scioglie le proprie riserve quasi provinciali. L’unico cruccio è la difficoltà a comunicare Guido, sempre di corsa, sempre vago sulla sua attività: alla curiosità culturale ben presto si affiancano una serie di dubbi, di incertezze che mettono in moto il vecchio fiuto da mastino del Commissario. Troppe stranezze avvolgono Guido, suo figlio, troppi personaggi strani, sui generis, come Gotti, o Giukas, un greco straripante di cafoneria, impresari di strampalate band musicali. L’incapacità di capire come Guido si guadagni da vivere, nella sostanza, induce Colajacono a tenere le antenne sempre vigili sulle mezze parole mormorate, sulla fretta di Guido che salta da un posto all’altro, sugli sguardi e su una frase captata per caso e sugli sviluppi della quale tutto il senso di quel viaggio sarà stravolto…
Più che un giallo, questo di Foschi e Leotta lo potremmo definire un verde: quello intenso e compatto della campagna irlandese. Un viaggio che all’inizio alletta il lettore con la tranquillità della campagna irlandese e la semplicità di un borgo con pochissime macchine, meno rumore e tanta, tantissima musica. In questa cornice tutto diventa più apprezzabile fino a quando non si insinua, lentamente e con metodo la sensazione che dietro questa scenografia idilliaca si nasconda qualcosa di torbido. Il morto ci scappa soltanto alla fine, al momento giusto per comprendere quanto, spesso, le apparenze siano effimere e per accorgersi di quanto, davanti al nichilismo esistenziale che spinge più alla sopravvivenza che al vivere, certi valori che Colajacono pensava granitici in verità, nei suoi figli non sono altro che buoni propositi risibili ed inattuabili, tanto lontani quanto più vicina è la necessità di non alterare lo status quo del proprio piccolo ed insignificante mondo. In questo poliziesco atipico, per stessa ammissione degli autori, l’indagine quindi non è esterna, chi ha ammazzato e perché, ma interna: una ricerca che porta alla triste scoperta di avere una famiglia che si credeva di conoscere ed invece è sconosciuta. Alla fine dell’indagine interiore la scoperta sarà questa, triste e definitiva: davanti alla comoda esigenza di non rimetterci la reputazione e la squallida ed effimera fetta di potere conquistata, la verità ed il senso di giustizia sono fagocitati dall’ipocrisia e dal desiderio di coprire ogni cosa con la menzogna, pur di continuare a vivere in pace, senza problemi (“la tua giustizia, quella in cui credi ormai soltanto tu, è un vocabolo da romanzo”). Malgrado il botto finale, una scudisciata bella e buona in mezzo alle scapole, la narrazione è piacevole e bella per quel gusto della parola che rende tutto scorrevole, a tratti spassoso. Quel che si dice una lettura lineare. Colajacono è un personaggio molto autoironico, assolutamente deciso a non rovinarsi la vancanza, tantomeno ad alterare il suo status di commissario in pensione. Eppure, alla fine, è anche un personaggio distrutto dal senso di fallimento per essersi scontrato con una realtà che mai avrebbe pensato potesse contaminare la sua famiglia, i suoi figli così spudoratamente maestri nell’arte di insabbiare. È l’allegoria del tempo presente, in cui la menzogna, rispetto alla verità, è una cortigiana di più facili costumi. Diceva Orazio: “L’odio è la preghiera dei poveri. E ognuno racconta la verità che poi può sopportare”.