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Shadows of Kurdistan

Shadows of Kurdistan

Ricomporre l’immagine andata in frantumi, attraverso un puzzle fatto di fotogrammi, di momenti, di punti distanti nello spazio, ma legati da un invisibile raggio di luce. Ricomporre la geografia frantumata del Kurdistan a partire dalle sue ombre, dalle proiezioni che la sua assenza getta sulla vita dei suoi abitanti. Il progetto fotografico di Murat Yazar ha lo scopo di scucire quelle righe di filo spinato che dividono in quattro pezzi le terre curde (Iraq, Turchia, Siria, Iran) e ritesserle in una stoffa unica, senza cesure, almeno nello spazio di libertà concesso in quel territorio privo di frontiere che è l’immaginario. In questo prezioso volume abbiamo un assaggio dell’ambizioso progetto del giovane fotografo curdo. La prima foto del volume, “Footprints in the snow”, mostra la linea delle impronte (probabilmente di un lupo o una volpe) che si perdono nella libertà sconfinata di una piana innevata. Ma quella linea allo stesso tempo divide la superficie in due parti, seziona, ciò che è di qua non può essere di là. Libertà dello sguardo all’orizzonte e ferita della linea che separa, convivono in un’unica efficacissima immagine. Metafora del senso patriottico dei curdi, storicamente disgregato, almeno fin da quando Impero ottomano e Impero persiano ne divisero i territori. Le figure ritratte da Yazar spesso si stagliano sullo sfondo di maestosi paesaggi: le montagne, l’Ararat, i pascoli sterminati, le pianure brulle, le città dalle mura millenarie, città ferite, spalmate in periferie che si estendono a perdita d’occhio perdendosi nella polvere dei campi incolti. I volti, paesaggi anch’essi, spesso sfumano dietro un vetro appannato, dietro uno sbuffo di sigaretta, dietro il fumo nero dei copertoni che ardono per celebrare il fuoco di Kawa il fabbro che condusse il popolo nella lotta contro il mostro tiranno Zohak. È il fuoco del Newroz, che puntualmente la polizia turca cerca di spegnere con gli idranti, sperando di soffocare nel cuore di un popolo l’ardore della rivolta…

Ci sono molte soglie nelle fotografie di Yazar. Quei confini che dividono il popolo dei curdi, si ripetono su scale minori, segnando rotture reali, psicologiche e simboliche. È la soglia dell’ingresso a scuola, sulla quale va lasciata la propria madrelingua per apprendere quella dello Stato; è la soglia di copertoni di camion che sul confine Turchia-Iran dividono terra brulla da altra terra brulla; è la soglia delle montagne che chiudono lo sguardo, dei grandi laghi che interrompono il cammino del viandante. Le terre curde sono solcate da numerosi, spesso dolorosi, iati. Il più netto di tutti però è quello fra lo sguardo dello spettatore e quello del paesaggio che si apre oltre la soglia della cornice. Le figure femminili sono colte in momenti di silenzio o di dolore. Gli anziani, dai volti scoscesi e irti a imitazione dei pendii rocciosi che li circondano, fissano il vuoto, attoniti, fumando. L’energia promana per lo più dai giovani: partite di calcio sommerse nella polvere con spalti di roccia che si perdono fra le nuvole, mani levate al cielo, salti sui fuochi celebrativi, tuffi nei torrenti che giù dai monti Zagros scendono verso la millenaria piana mesopotamica, verso le antiche città che scrutano le distese dall’alto dei loro rialzi. Ricomporre per via d’immagine quanto i confini e la politica dividono. Evidenziare somiglianze, curare l’unità, medicare le ferite segnate dagli strappi, dai blocchi imposti al normale fluire del liquido culturale di un popolo, di una lingua, di una musica, di un rapporto peculiare fra anima e spazio geografico. Questo cerca di fare la fotografia di Murat Yazar. Su questo porta a riflettere lo spettatore che si addentri nelle mille pieghe, nei tanti spazi d’ombra che le sue fotografie offrono allo sguardo, invitandoci ad accompagnarlo nel viaggio.