
Malgrado un leggerissimo aumento della fiducia nei media da 2018 a 2019, essa rimane tuttavia ai minimi storici e i dati delle vendite giornaliere delle copie cartacee dei quotidiani lo testimoniano: nel 2007 il “Corriere della Sera” vendeva 576.715 copie al giorno e “la Repubblica” 580.920; nel 2018 le due principali testate italiane hanno venduto – incluse le copie digitali – rispettivamente 232.491 e 187.036 copie al giorno. Ovviamente sono aumentati gli utenti che ne visitano i siti web (2.474.799 per il www.corriere.it, 2.941.024 per www.repubblica.it), eppure i media tradizionali continuano ad affrontare una crisi dalla quale non sembrano destinati ad uscire – perlomeno non a breve. La colpa, a detta di tutti, è da attribuire proprio al web, ed in particolare ai due colossi Google e Facebook, i quali da un lato si appropriano della maggior parte dei ricavi pubblicitari monopolizzando il mercato e dall’altro sono diventati i luoghi in ed attraverso cui tutti possono essere dei reporter, condividendo una notizia un minimo originale. Tanto vale allora, stando a questi dati, cominciare a scrivere il necrologio del giornalismo, in quanto sembra esserci ben poco da fare per riuscire a salvarlo. Oppure, in alternativa, si potrebbe prendere l’altra via, quella più tortuosa: ripensarlo daccapo, integrarlo in maniera intelligente con il web, e cominciare a farsi un esame di coscienza…
Qualche giorno fa, l’attore Valerio Mastandrea ha interpretato, durante il programma televisivo Propaganda Live, un monologo scritto da Mattia Torre la cui sinossi è: in Italia le colpe sono sempre degli altri. Funziona così anche per quanto riguarda il giornalismo: la colpa è di internet. Eppure non è così. con Slow Journalism Daniele Nalbone – giornalista del “The Post Internazionale” – e Alberto Puliafito – regista ed ex direttore responsabile di “Blogo” – spiegano perché, in maniera chiara ed esaustiva. Il giornalismo è in crisi principalmente per due motivi, inevitabilmente legati tra loro: gli editori non hanno capito né internet né il suo funzionamento, credendo sarebbe bastato semplicemente mettere il giornale online; inoltre, gli stessi non si sono preoccupati minimamente di innovarsi, non concependo un modo alternativo di portare incassi. Abbassandosi di conseguenza la qualità delle notizie, anche a causa di un vertiginoso aumento delle cosiddette fake news, le reazioni sono state di due tipi: da un lato, la pars destruens, la sfiducia dei media, dall’altro, pars construens, lo slow journalism. Lo slow journalism – o giornalismo lento – è una sottocultura nata proprio come reazione a questa flessione della qualità del giornalismo tradizionale. Tuttavia, gli autori di questo saggio lo intendono come “un recupero del giornalismo come servizio alle persone”, lo definiscono “buono, lento e pulito”, ne indicano i principi e citano esempi (Delayed Gratification nel Regno Unito, Zetland in Danimarca, De Correspondent nei Paesi Bassi). In caso non fosse abbastanza chiaro, questo saggio va letto: per la sua imparzialità, per il suo cinismo, per la sua chiarezza, ma soprattutto perché non si limita a criticare, ma offre soluzioni, indicando una via per il giornalismo che verrà.