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Sofocle - L’abisso di Edipo

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L’amato re di Tebe, Edipo, sta cercando di debellare la pestilenza che ammorba la città e dare una risposta al popolo che chiede di essere salvato dalla fame e dal contagio. Il sovrano decide di inviare Creonte, fratello di sua moglie Giocasta, ad interrogare l’oracolo di Delfi. Il responso di Apollo dice che è necessario punire l’assassino di Laio, prima di lui re di Tebe e marito di Giocasta, che è ancora in città. Laio è stato ucciso dai briganti sulla strada per Delfi, dove stava andando a chiedere aiuto al dio per sconfiggere la Sfinge che terrorizzava la città. Era stato proprio Edipo poi a rispondere all’enigma del mostro e a liberare Tebe. Edipo maledice l’assassino e proclama per lui il bando di esilio, quindi chiede al vate Tiresia di svelarne il nome. Nasce una discussione perché Tiresia non vuole parlare ed Edipo crede che Creonte voglia accusarlo, fino a che Giocasta interviene e racconta alcuni particolari riguardo la morte del suo primo marito che turbano il nuovo consorte. Viene chiamato un vecchio servo che era stato fedele a Laio, unico testimone ancora in vita dell’omicidio. Il suo racconto fa sì che pezzi del passato di Edipo vadano dolorosamente al loro posto e che una terribile verità si riveli nel suo orrore. Edipo, parricida e figlio incestuoso, è figlio di Laio, è salito sul suo trono dopo averlo ucciso, ha sposato sua moglie, che è sua madre, e ha generato figli con lei. Giocasta, sconvolta, si impicca ed Edipo, dopo essersi accecato con uno spillone della veste della donna chiede di essere esiliato. Questa è una delle storie più famose raccontate da uno dei più grandi tragediografi di tutti i tempi nell’Atene del V secolo a.C. Perché Aristotele ha definito Edipo re di Sofocle la tragedia perfetta? Da dove nasce il fascino eterno di questa storia antica? Perché il mito di Edipo in ogni epoca è stato considerato uno dei più affascinanti? In che senso quella di Edipo è la parabola della fragilità umana? Perché Freud, folgorato da questa vicenda, scelse come ex libris per tutti i volumi della sua biblioteca proprio l’immagine di Edipo con la Sfinge e il bastone con il quale ha appena ucciso suo padre? Come mai Aristotele, filosofo della ragione e della logica, e Freud, l’indagatore dell’irrazionale, furono entrambi profondamente colpiti da questa figura tragica del mito greco?

Considerato il capolavoro di Sofocle, drammaturgo greco del V secolo a.C., Edipo re fu rappresentata tra il 430 e il 420 a.C. e appartiene al cosiddetto Ciclo Tebano, che narra le vicende del mito legato, appunto, alla città di Tebe. Giulio Guidorizzi – grecista, accademico, autore di traduzioni e curatele, allievo di Dario Del Corno e codirettore della rivista Studi Italiani di Filologia Classica – affianca, in questo agile volumetto di questa collana pensata per far rivivere la voce degli antichi, una sua traduzione della tragedia a riflessioni critiche, argomentate in maniera scorrevole e fruibile per tutti. Guidorizzi ha detto di aver più volte tradotto questi versi di Sofocle, traduzioni andate disperse, e che adesso gli è parso di doverlo fare di nuovo perché Edipo è come fosse un compagno di strada che lo ha sempre accompagnato, così come continua ad incrociare il cammino di ogni uomo. In molti concordano nel pensare che altre tragedie sofoclee siano più commoventi, più belle da vedere a teatro; a Voltaire, per esempio, Edipo non piaceva, diceva che ci sono troppe irragionevolezze, troppe illogicità. Eppure, dice Guidorizzi, “Edipo è intrappolato dal suo destino, e noi siamo intrappolati da Edipo”. Perché? “Edipo è il primo eroe della mitologia ad osare un viaggio dentro se stesso: dentro, non fuori come Ulisse” e i suoi mostri non può sconfiggerli, proprio perché li trova in se stesso. Edipo crede di essere protetto dagli dei e amato dagli uomini; all’improvviso prende coscienza che invece dentro di sé c’è qualcosa di oscuro, che esistono forze che sfuggono alla volontà e così, al culmine delle felicità, cade rovinosamente. Edipo pensava di aver capito tutto, di poter controllare tutto, fiducioso nella sua intelligenza che gli aveva permesso di risolvere il quesito della Sfinge; tutto ad un tratto si tende conto di non aver capito proprio nulla. Allora guarda in se stesso e vede l’abisso, l’abisso della conoscenza che può essere spaventoso. L’insegnamento di Sofocle – dice l’autore – è che siamo tutti costretti a fare i conti con l’ingovernabile, e ad accettare che la ragione da sola non sempre basta. Perché esiste l’imponderabile e inesorabile capace di capovolgere la nostra visione del mondo e la nostra vita. E quando l’uomo crede di riuscire a sbrogliare la matassa del caos in cui è immerso, è proprio allora che finisce per perdersi ulteriormente. Attraverso questa sofferenza, l’uomo di Sofocle – quasi sempre nelle tragedie buono ma inesorabilmente solo – giunge alla comprensione di sé, del proprio essere doppio e contraddittorio. “Il mito di Edipo incrocia il problema della colpa con quello della sofferenza e afferma che l’una è indipendente dall’altra. Non c’è una giustizia, non c’è un compenso e, tutto sommato, nemmeno spiegazione”. Edipo re non è una semplice opera letteraria, dice Guidorizzi, “ma un gruppo di problemi e anche un modello di umanità in cui io credo che la nostra civiltà abbia ancora bisogno di riconoscersi”. È tutto così precario, aggiunge, “basta un frammento di materia vivente a mettere in crisi la nostra vita”. È stato così per la peste di Atene, è così per la pestilenza che affligge Tebe in apertura della tragedia, è stato così per noi alle prese con la pandemia. “Quella peste di Tebe non rese migliori Edipo e i suoi concittadini, non ci renderà migliori la nostra epidemia”. La tragedia, poi, pone una questione assai moderna, quella della libertà e dell’autodeterminazione. I poli esistenziali dell’opera – ma anche dell’esperienza umana – sono Destino e Libertà. Qual è la percentuale di libertà che ha davvero l’uomo? Un tema che tra l’altro, è assai caro alla letteratura, per esempio a quella russa. Edipo re, sostiene Guidorizzi, dà voce all’indicibile, a ciò che mai è stato detto prima, ed è per questo che è un capolavoro. Freud allora scopre che Edipo – ma il mito greco in generale – parla della parte profonda e primitiva dell’animo umano, ovvero dell’agire oscuro dell’inconscio. Ed ecco la “scoperta devastante” di Edipo: non c’è legge che governa l’esperienza umana ma siamo frutto di scelte inconsce e forze ignote; ne deriva la fragilità intrinseca della situazione umana. I greci seppero trovare le parole per raccontare questa ambiguità dell’uomo, ma la lingua di Sofocle in particolare, dice lo studioso, ha una bellezza enigmatica e sfuggente che comprende, addirittura, parole intraducibili che appartengono all’antropologia della lingua greca. La tragedia esprime “l’ambiguità della parola in sé, dato che nessun personaggio appare veramente padrone di quella che sta dicendo”. Questo dramma della conoscenza e dell’ambiguità si eredita di padre in figlio (Laio, Edipo) e continua nella progenie fino ad arrivare all’uomo moderno, costretto anche lui a guardarsi dentro davanti a certe circostanze della vita. Guidorizzi continua a scrivere di miti nelle sue monografie, e spiega “Io credo che la scrittura abbia sempre qualcosa di mitico. […] I classici, da Omero a Sofocle, lo sapevano: per questo continuavano a raccontare le stesse storie e parlavano degli stessi eroi e ogni volta venivano parole nuove. […] Sono loro a darmi le parole, basta che io sappia aspettare il momento in cui hanno voglia di parlare”. Perché leggere questo breve saggio e le antiche parole di Sofocle? Perché anche noi, come Edipo secoli fa, abbiamo bisogno di esercitare l’arte del dubbio per aspirare ad una conoscenza più alta e ad una consapevolezza maggiore, nel tentativo di accettare il baratro che custodiamo dentro di noi, quello di cui ci ha parlato, tra gli altri, anche Nietzsche.