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Soldato tartaruga

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Eccolo, Zoli, “bambino sporco e solenne”, in piedi in mezzo al pollaio, immobile. Gli occhi blu spalancati e attenti, il naso che cola, un piccolo sorriso sulle labbra. In mano un uovo tiepido da tirare al cane Tango, che abbaia e gira in tondo come impazzito. Zoli e la sua bocca che ogni tanto comincia a “parlare per conto suo”. Zoli che è cambiato per sempre dopo la caduta dalla moto del padre. Quel giorno – era un venerdì, il giorno dei knödel alle prugne – era caduto “come un sacco di farina”, una pagnotta fresca nella tracolla, la testa spaccata. Aveva sentito la voce di suo padre raggiungerlo in quel nuovo mondo che era diventata la sua testa, “che era arancione, rosso, turchese e viola, con fiori che spuntavano in tutti gli angoli e ai bordi e profumavano di pane”. Un dottore aveva sollevato il polso di Zoli, il ragazzo l’aveva afferrato per il bavero, gli aveva urlato contro indiavolato (improvvisamente era “Zoli-il diavolo! diavolo-della-polvere! diavolo-zingaro!”). Quel giorno il sangue gli “frizzava” dalla testa come una fontana, racconta singhiozzando a Zoli il padre, la bottiglia sempre in mano. Sarebbe potuto diventare qualcuno, il suo Zoltán, avrebbe potuto salvarli dal “sangue bastardo” col lavoro onesto da fornaio. E invece dall’incidente niente più farina bianca da impastare. Degradato a bracciante, Zoli è diventato un buono a nulla. E poi una notte sono venuti a prenderlo, “con gli stivali ai piedi”, per portarlo a fare il soldato a Zrenjanin, per farne un vero uomo…

È tenero, visionario, frastagliato, ripido, a volte faticoso il flusso di coscienza di Zoltán Kertész, eterno bambino nel corpo di un uomo. Strappato ai colori del suo amato giardino, reclutato nell’Armata Popolare – siamo nella Jugoslavia dei primi anni Novanta, a breve si consumerà la battaglia di Vukovar – e trascinato a Zrenjanin. Sarà costretto a obbedire ad ordini insensati di “tenenti-rapaci”, a nascondere la paura, a sopravvivere. In caserma avrà accanto Jenő, l’unico tra i compagni grado di comprenderlo, di scacciare il suo “demone” quando scalpita, quando Zoli diventa “lui senza Zoli”. Lo sguardo del protagonista di questo Soldato tartaruga è puro, disarmante. “Negli occhi di Zoli” – racconta Anna, cugina di Zoltán e seconda voce narrante del romanzo, che affronterà un doloroso ritorno in Serbia alla ricerca della verità sui giorni del ragazzo a Zrenjanin – “confluiva qualsiasi cosa, senza ostacoli, senza filtri. Assorbivano tutto quel che c’era, inclusa la parte nascosta e che nascosta doveva restare”. Il viaggio di Anna verso il ricordo di Zoli restituisce al contempo l’incontro, intimo e devastante, con le memorie di una casa – di un Paese – che non esiste più, spazzata via dalla vuota retorica della guerra, dagli incomprensibili “principi dell’ammazzare” che non portano onore, riscatto, salvezza, come i genitori di Zoli si ostinano a ripetere, ma solo distruzione. E chi è diverso, chi riesce a conservare la propria innocenza, come Zoli, non può che esserne annientato. Melinda Nadj Abonji, nata in Serbia e naturalizzata svizzera, scrittrice, cantante, musicista e autrice teatrale, regala un romanzo delicato e trascinante, amaro e poetico, di grande intensità. Dal romanzo è stato tratto, per mano della stessa autrice, l’adattamento teatrale Soldat Kertész!, portato in scena a Zurigo.