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Sole e acciaio

Sole e acciaio

“Presupponendo che il mio io fosse una dimora, il mio corpo era l’orto che la circondava. […] Un giorno decisi di incominciare a coltivare alacremente il mio orto. Usai sole e acciaio”. Nel momento in cui si fa strada la certezza che fin dall’infanzia le parole hanno preceduto il corpo, che la trasformazione della realtà operata dal linguaggio ha divorato il mondo costringendo il giovane Yukio Mishima a fuggirne, in quel momento è necessario affidarsi a una disciplina che modifichi il flusso dei pensieri dall’esterno. Dal momento che la disciplina spirituale, corrosiva e alienante per il corpo, non permette la fusione con ciò che appartiene alla terra (ché lo spirito tende sempre al cielo), per ritrovare la purezza del corpo è necessario allenare i muscoli. Educarli al cospetto del sole e dell’acciaio. La stanchezza e il tedio per la dualità fra spirito e corpo hanno tracciato un percorso senza ritorno verso la “loquacità del corpo”, verso quella fine eroica e romantica da sempre agognata ma di cui il poeta non reputava esser degno in gioventù, perché sono necessari “muscoli possenti e scultorei” per arrivare adeguati al cospetto della morte...

La critica occulta all’intellettuale crepuscolare operata da Mishima in questo breve saggio scritto nel 1968 (appena due anni prima del suo suicidio rituale in diretta televisiva) è fondamentale per capire la vita e la morte dello scrittore nipponico e può essere riassunta in un’immagine, archetipo ideale dell’uomo eroico che si rivela nel famoso scatto in cui stringe la sua katana e la testa è fasciata dall’hachimaki, e in cui compare, fiero ed eterno, il Sol Levante giapponese. Sole e Acciaio. Una via che presuppone l’abbandono della notte, del respiro del poeta, dell’individualismo a favore di un ideale eroico e universale. Uno slancio verso la tragicità del gruppo: proprio nel 1968 Mishima fonda il Tate no kai, la Società dello Scudo, che perseguiva valori nazionalisti contro l’asservimento del Giappone agli Stati Uniti. Solo superando il dominio della personalità operato dalle parole avrebbe potuto destare il significato profondo della carne, del gruppo, della morte eroica. Senza dimenticare lo slancio dell’anima verso il cielo, di cui il poeta ci fa dono nell’epilogo, portandoci con lui nel volo lirico: “Chi non vorrebbe essere quella lama affilata nel cielo?”.