
Bianca ed Emma. Sono cresciute legatissime l’una all’altra, come pare accada a tutti i gemelli, due facce di una stessa medaglia, così simili nell’aspetto fisico quanto all’opposto nel carattere, Bianca loquace estroversa sicura, la prima a parlare, a camminare; Emma “sempre un passo indietro”, incerta e insicura, “le cresceva addosso un senso di inadeguatezza che si vestiva di silenzi”. Quel giorno della gita la loro madre Valeria si era imposta di vincere l’ansia e la voglia di accompagnarle, aveva affidato Emma a Bianca e le aveva lasciate andare sul pullman. Dopo il lago di Garda aveva cominciato a nevicare, ad un certo punto si erano fermati all’area di servizio. Emma era malinconica, “Mi mancano mamma e papà”, aveva detto. Bianca l’aveva abbracciata alla vita, “Tra tre giorni siamo a casa. Vedrai ci divertiremo”. Poi era stato un attimo, ad Emma era caduta la pallina di gomma che stringeva in mano e che aveva cominciato a rotolare. La bambina l’aveva seguita senza pensare, poi aveva sentito la voce di Bianca che la chiamava, poi una spinta, poi il dolore. Poi il cielo e la terra si erano capovolti. È passato tempo da allora, Emma ha una zoppia leggera e un gamba che le duole spesso, Bianca da nove anni è immobile in un letto di un istituto dove si prendono cura di lei, nella sua stanza c’è il rumore costante dei monitor e l’odore di pulito. Ogni settimana Emma, che come la sorella immersa nel suo sonno innaturale ora ha diciassette anni, entra in quella stanza e come in un rito le passa la crema idratante sulle braccia, sulle mani, a lungo; poi le racconta tutto quello che le accade. Nella sua vita, in realtà, non succede granché. Oltre alla scuola e il piccolo talentuoso Mattia cui fa da babysitter, Emma non ha che il teatro. Una storia con il suo insegnante di recitazione non è nemmeno una storia, o almeno non lo è più. È brava Emma, ha qualcosa di speciale, e adesso le hanno proposto di prendere parte ad una tournée. Suo padre Enrico, – lui almeno ogni tanto parla con lei – non è contrario, ma Valeria, sua madre, non vuole sentire ragioni e ha detto di no. Valeria, che pensa soltanto al suo lavoro (davvero soltanto a quello, da qualche mese a questa parte?), che dall’incidente si è allontanata da tutti e soprattutto da Emma, Valeria che forse non le vuole bene quanto ne vuole a Bianca, Valeria che probabilmente avrebbe preferito che in quel letto, tra le due, ci fosse l’altra figlia…
Il secondo romanzo di Stefano Corbetta – musicista, interior designer, autore di articoli e recensioni per un quotidiano locale, di racconti e un altro romanzo Le coccinelle non hanno paura - è una storia di silenzio. Vuoto e silenzio, infatti, dominano tra le pagine della semplice vicenda di una famiglia che vive l’esperienza durissima di un incidente che relega una delle due figlie coinvolte in una dimensione parallela, quella di coloro che abitano il limbo del coma vegetativo, non morti ma nemmeno vivi perché addormentati. Nel silenzio in cui è immersa Bianca prendono ad abitare anche i silenzi dei suoi genitori e della sua gemella, Emma, “Ognuno era rinchiuso nel suo mondo di cristallo. Potevano vedersi, riuscivano a distinguere il movimento delle labbra, ma nessuno sentiva, nessuno ascoltava”. Dopo l’incidente la vita di Emma è diventata un’ombra, una specie di sonno anche per lei, che si trova a vivere un altro silenzio, un altro buio, un’altra rarefazione nella quale trovano spazio poche cose. La scuola, il bambino musicista, il fragile rapporto con suo padre. Il teatro per lei è un piccolo spiraglio che le permette di esprimersi; poi arriva la musica e poi l’incontro con Léon. Ma sono soltanto piccole crepe in un guscio spesso. Suo padre tenta di reggere l’equilibrio instabile della sua famiglia, sua madre si è chiusa in un dolore che non ammette la vicinanza di nessuno, lei, Emma, si è rifugiata nella distanza, nel senso di colpa che la nutre e la schiaccia ad un tempo, convinta che in quel letto doveva esserci lei, e che ha ragione sua madre a pensarlo - e lei lo sa che lo pensa. “Il silenzio era diventato la zona di confine tra il giorno dell’incidente e l’ignoto che ne era conseguito e quel confine si era trasformato in una terra sempre più vasta”. Quella di Bianca è un’assenza ingombrante, una presenza evanescente ma è al centro di tutte le loro emozioni e di tutti i loro sentimenti. In questa catatonia, in questo sonno bianco che vero sonno non è, Bianca ha inconsapevolmente trascinato i suo genitori e sua sorella. Una storia difficile, dura e dolorosa come lo è per chiunque deve averne vissuta una simile, complicata dal legame viscerale tra le gemelle. Di queste persone Stefano Corbetta si è interessato per due anni prima di scrivere il suo romanzo, soprattutto all’interno dell’Istituto Palazzolo di Milano, dove gentilmente lo hanno aiutato a capire. Ha raccontato l’autore che l’idea del romanzo è nata da una immagine colta in ospedale, dove una ragazza immobile in un letto aveva accanto un’altra giovane identica a lei che la vegliava. Vicino, una miniatura de “La cattedrale di Rodin”, una celebre immagine di due mani che si toccano, simbolo di un dialogo muto, proprio come quello che lega per anni Bianca ed Emma. Il silenzio avanza e conquista gli spazi vuoti creati dal dolore, le assenze si fanno presenze e si scambiano di posto. In questa storia esiste anche il ruolo salvifico della musica che è sfogo e cura, lo è per Bianca, lo è per Emma, forse perché “Senza silenzio le note non potrebbero nascere e morire”. Il silenzio di Bianca comincia poi ad infrangersi grazie ad una terapia sperimentale e così sembra si incrinino anche gli altri silenzi intorno a lei. Ma il finale non è scontato in questa storia e il lettore sarà sorpreso dalla speranza, anch’essa rarefatta, che lascia un sapore dolce amaro, come è spesso la vita. Perché ci sono silenzi che allontanano e silenzi che avvicinano, perché servono tempo e pazienza affinché ognuno ritrovi la sua voce dopo aver taciuto a lungo, ognuno a suo modo. Se fosse un quadro, Sonno bianco sarebbe un paesaggio innevato dominato dalla neve; in fondo il racconto comincia nel cuore dell’inverno. Il sonno di Bianca – bianco come la neve che è silenziosa e sembra posarsi lieve e invece pesa tanto, bianco come il nome di questa principessa addormentata da un terribile incantesimo –, ma anche quello dei suoi familiari sospesi in una bolla, a dispetto della normalità imposta alle loro vite, è destinato a finire; ma cosa implicherà? Tutti i silenzi si possono colmare o soltanto compensarsi? Forse la risposta è nell’ultima pagina, o forse no. Ma questa storia di vuoti e pieni, di silenzio e neve resta nel cuore come il male che fanno certe solitudini, delicata quanto è fragile la speranza che si accompagna alle rinascite e al tempo che serve a certi ritorni. La scrittura di Stefano Corbetta si è fatta più piena e matura, pulita e consapevole, e allo stesso tempo ha acquistato una forma rarefatta (anch’essa!) perfetta per questa storia che si fa leggere d’un fiato.