
L’uomo viaggia da sempre su quel treno. È quella la sua realtà: lì è nato e sa che lì morirà. Non ha mai avuto modo di vederlo dall’esterno. L’unica cosa che nota è quando, sul binario parallelo, arriva l’altro treno che corre nel loro stesso senso di marcia. A memoria d’uomo quel treno c’è sempre stato. Come a far capire a tutti loro che, in fondo, non sono soli. Alcuni si sono sposati, sono nati dei bimbi all’interno del treno. Lui invece è innamorato di una donna che viaggia nel treno parallelo: Antonia. Quando si incontrano possono solo guardarsi per pochi secondi. La leggenda vuole che i due treni stiano correndo entrambi verso un precipizio, un ponte spezzato che li lascerà cadere nel vuoto… Attraverso le pianure, tutte identiche, corre un treno. Il viaggiatore ci è salito. Vuole fermarsi a Taka-Maklan, scendere e guardare la città. Il capotreno, scambiando due parole, gli spiega che sono ormai tre anni che quella fermata non esiste più. Taka-Maklan è ormai una città abbandonata, nessun abitante può uscirci e nessuno ha la possibilità di entrarci più. Il viaggatore non ha alcuna intenzione di arrendersi: arrivati nei pressi della fermata proverà a scendere lo stesso. Ha inseguito Taka-Maklan per una vita. Non può arrendersi proprio ora…
Éric Faye, scrittore molto più noto in Francia che nel nostro Paese, ci regala nove racconti tutti scritti tra il 1990 e il 1997. Nove solitudini alla ricerca di qualcosa, nove uomini – i protagonisti sono tutti maschili – immersi in situazioni surreali da cui non hanno la forza o la voglia di venir fuori. La solitudine è la loro unica compagna: come se nel vivere fuori dalla società contemporanea ci fossero solo benefici, come se si rimanesse sempre ad attendere che qualcosa o qualcuno possa cambiare la loro esistenza, rompere le catene e dal loro una seconda possibilità. I nove protagonisti sono degli anti-eroi per eccellenza. Sono “inetti” per dirla come Svevo e, per citare anche il nostro Buzzati, attendono che arrivino “i tartari” a dar loro la scossa, la voglia per ricominciare a vivere, per rientrare nella società che hanno abbandonato. La scrittura di Éric Faye, paratattica, incisiva, pulita, conduce il lettore in mondi paralleli, dove si è alla ricerca prima di tutto di se stessi: recuperare una visione unitaria del sé, ricostruirsi, è lo scopo di ogni protagonista. Nel racconto che dà il nome all’antologia c’è un uomo che non ha nulla da segnalare al mondo se non il fatto stesso di vivere in un faro completamente isolato in mezzo al mare e diventa vittima della costante disattesa dell’arrivo di qualche evento che dia ragion d’essere alle sue giornate: è il climax della solitudine esistenziale in cui siamo tutti immersi. E non c’è soluzione. Bisogna imparare a conviverci. “L’esistenza è fatta di piccole morti successive, annidate una dentro l’altra. Una telefonata a cui non rispondiamo. Una corrispondenza interrotta; una lapide su cui non portiamo più i fiori”: è la solitudine la vera ossessione dello scrittore francese e dei suoi protagonisti; è la solitudine, più probabilmente, il nemico più grande che tutti noi dobbiamo affrontare.