
Il calcio è pieno di protagonisti indiscussi, del tutto meritevoli sul piano tecnico (Maradona trent’anni fa, Messi o Ronaldo oggi) o di personaggi che invece potevano diventarlo ma non si sono saputi gestire, e nel contempo forse dentro di sé continuano a darsi arie da campioni (chi ha detto Balotelli?). Lo stesso, forse in tono minore, vale per gli allenatori: si pensi, come tecnico pluripremiato che ha tutte le caratteristiche di “grandeur” e di arroganza delle star del campo, a Mourinho: un esempio al contrario, nel calcio di venti, trent’anni fa, può essere proprio quello di Ottavio Bianchi. Il “coach” qui raccontato è sempre stato personaggio schivo, in questo senso un vero e proprio recordman: senz’altro uno di quelli che misuravano e contavano le parole da pronunciare innanzi ai microfoni, pur in un momento storico in cui i “media”, anche nello sport, iniziavano a rafforzare la loro invasività, poi divenuta colossale a partire dal nuovo millennio. Quindi Ottavio Bianchi è uomo della cui vita, della cui psicologia, finanche della carriera calcistica antecedente a quella di trainer, si sa poco o nulla, nonostante quest’ultima sia stata tra l’altro assolutamente meritevole, tanto da fargli più volte sfiorare il posto in Nazionale. Bianchi era nato come centrocampista offensivo molto promettente, poi un brutto infortunio a 19 anni gli tramutò il ruolo in quello di mediano, nel quale, pure, continuava a essere molto efficace in zona gol. Aveva voluto continuare con le unghie e coi denti, nonostante due interventi chirurgici e nonostante i molti medici che gli avevano predetto il forzato stop alla carriera; poi la serie A dopo la gavetta nel Brescia, varie squadre tra cui alcune molto importanti quali il Napoli, e, a fine carriera, il Milan. Presso i partenopei aveva quale presidente Ferlaino, che dopo un solo, ottimo anno lo diede via giacché si era macchiato di una colpa, per il “patron” napoletano, molto grave: aver provato a fare da “sindacalista” per i propri compagni su alcune questioni contrattuali (questo l’appellativo che si portò appresso per molti anni, almeno fino al proprio ritorno a Napoli come allenatore, sempre con Ferlaino (sic!) che dovette inghiottire il rospo)…
Quello che accomuna - forse anche al di là di quanto Ottavio e la figlia Camilla volessero far risaltare nel racconto - tutte le stagioni da calciatore e poi, a maggior ragione, quelle della maturità da tecnico, è il comportamento schietto e tutto d’un pezzo di Bianchi, che certo non poteva renderlo simpatico a molti, ed era anzi tale in un certo senso da predestinarlo alle discussioni ovunque andasse. Né da calciatore né da allenatore è rimasto mai molti anni presso lo stesso posto: il suo record è stato a Napoli (4 stagioni), ed è lì che sono arrivati i maggiori successi, la consacrazione quale allenatore (uno scudetto vinto e uno sfiorato, 1 coppa Italia ed 1 coppa Uefa, che è rimasta l’unico trofeo europeo finora conquistato dagli azzurri nella loro storia). Molto toccante il breve ricordo di Dino Viola e della sua schiettezza, anche se va sottolineato come nel libro quasi non si parli dei due anni alla Roma (sì e no dieci le righe dedicate al tema) nonostante i risultati non del tutto negativi anche in tale periodo (una coppa Italia e una Coppa Uefa con una squadra non trascendentale). Vista la brevità del libro, forse sarebbe stata opportuna una trattazione un minimo più ampia, considerato altresì che viene dato ampio spazio, invece, all’altrettanto breve fase comasca; evidentemente, per Bianchi, è stato più importante e più piacevole ricordare il proprio esordio in serie A da allenatore e gli ottimi risultati ottenuti con una squadra da molti data per spacciata. Si tratta in ogni caso di un’opera di agevole e veloce lettura, tra il biografico e l’autobiografico perché è narrato prevalentemente in prima persona da Ottavio ma vi sono aggiunte e commenti, oltre che racconti, della figlia giornalista Camilla, che poi comunque è colei che “ricuce” e riporta il tutto, il più delle volte in prima persona. Si nota che è scritto da una giornalista e non da una scrittrice, perché il tono è asciutto e cronachistico e mai epico o agiografico: se, in tal modo, non si rende molto accattivante la lettura per chi non ha nulla a che fare con il calcio, nel contempo però in tal modo lo stile si confà maggiormente alle reali caratteristiche di vita e di carattere del padre Ottavio. La sensazione che si ha del lavoro a fine lettura, pur buona e piacevole, è di un non totale appagamento per via della mancanza totale di alcune fasi della carriera dell’allenatore (la già detta Roma, il primo anno al Napoli) e dello scarso approfondimento di episodi, invece, senz’altro capitali a loro modo anche decisivi nella carriera di Bianchi (su tutti il “giallo” dello scudetto tramontato a 5 giornate dalla fine, nel 1987/88, a Napoli, a beneficio del Milan di Sacchi che era nettamente staccato).