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Sotto Tiberio

Sotto Tiberio
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Primavera 2000. Nick Tosches sta scrivendo un romanzo: ha accesso anche all’Archivio Segreto e trascorre intere giornate in Vaticano a studiare manoscritti rari. Un giorno, un prelato anziano lo accompagna in una stanza piena di cilindri di pelle legati assieme da cinghie e gli dice: “Nessuno conosce tutto quello che si trova qui. Alcuni di questi rotoli hanno tre, quattromila anni, se non di più e non è mai stato fatto un inventario scrupoloso e completo”. Nick solleva un codice a caso: è in latino, scritto con grafia ricercata. Il prelato si accosta e legge: “Tristissimus hominum, il più tetro tra gli uomini”. È un libro su Tiberio, scritto da qualcuno che lo conosceva di persona. Scorre il testo e si ferma su una parola che compare più volte: Iesus. Sconcertato, mette il plico nella sua valigetta e chiede a Nick di non parlarne a nessuno. Poco tempo dopo i due si danno appuntamento lontano dall’archivio: “ È autentico”, annuncia il prelato. “È il memoriale di un vecchio scritto per il nipote ed è il più antico ritratto di Gesù, persino più antico di quello del Vangelo di Marco. È l’unico fatto per conoscenza diretta”. Nick inizia a congratularsi con il prelato, pensa che gli daranno una promozione o qualcosa del genere, ma lui lo ferma subito: “Lo dia al mondo, io non posso. Legga e capirà perché”...

Nick Tosches è stato soprannominato il principe oscuro del romanzo americano e la sua vita è ed è stata insolita: si dice che abbia trascorso quasi tutta l’infanzia nel bar del padre e che prima di fare lo scrittore fosse un cacciatore di serpenti. Sempre distante da qualsiasi moda editoriale, ha scritto biografie e romanzi che non potrebbero essere più diversi (si va da Jerry Lee Lewis a Dante Alighieri). Non sorprende dunque che sia lui l’autore di Sotto Tiberio, un romanzo che “Publishers Weekly” ha definito “(…) decisamente blasfemo, volgare in modo ridicolo e fondamentalmente geniale” e che racconta non solo le nefandezze compiute dall’imperatore romano, ma anche e soprattutto la storia di un Gesù imbroglione, molto diverso da quello a cui siamo abituati. Ad eccezione del prologo, basato per intero sull’espediente del manoscritto trovato in Vaticano, il romanzo è scritto come un antico trattato latino e ne ricalca temi e sintassi – niente dialoghi, intricate frasi ricche di subordinate e paesaggi mediterranei tratteggiati dietro periodi che somigliano a proclamazioni di verità. La voce narrante è quella di Gaio Fulvio Falconio – una sorta di ghostwriter di Tiberio – e il suo racconto potrebbe assomigliare per stile alle Lettere a Lucilio di Seneca, ma per contenuti ai Versi satanici di Salman Rushdie. Questo bizzarro connubio richiede molta concentrazione: la materia è decisamente controversa e l’ambizione del progetto fin troppa, al punto che le pagine spesso non riescono a contenerla tutta. In un’intervista alla radio pubblica americana è stato chiesto all’autore perché si sia imbarcato in un libro del genere: “Credo volessi incoraggiare la gente a riflettere sul fatto che l’idea di Dio non è mai stata usata in questo mondo per qualcosa di buono, ma solo per il male ed è nata da debolezze e ha portato a spargimenti di sangue, caos, bugie, furti”.