
Musica Soul: la musica dell’anima e, come l’anima, inafferrabile e indefinibile. Sì, perché il termine “Soul” non circoscrive un genere musicale ben preciso caratterizzato da specifiche espressioni formali ma è qualcosa che va ad abbracciare un’essenza che può attraversare -anche contemporaneamente- stilemi Rithm’n’blues, pop, funk, gospel, jazz ed altro, fino alla primissima Disco Music. Soul è un concetto che va oltre i canoni musicali, è un modo di esistere. È il retaggio a volte inconsapevole –ma presente e vivo- di una condizione: quella degli afroamericani. Poi come sempre accade nella Storia della musica, quando un arbusto mette radici creando un albero fruttifero, il nutrimento goduto e dato diventa appannaggio di tutti. Quindi il Soul, i cui semi provengono dalla condizione afroamericana, non vedrà esclusi come esponenti e apportatori di linfa anche artisti bianchi di tutto rispetto. Rispetto. Respect cantava Otis Redding nel ’65 in un testo che poi divenne un’istanza da parte dei neri. R-e-s-p-e-c-t cantava Aretha Franklin nel ’67 (con uno spelling da brividi su un groove che t’appiccica al muro), pretendendone come donna. Wow, Aretha Franklin, “Lady Soul”. A farle da contraltare la patinata Diana Ross, “Diva of Soul”. Ma tra le Signore del Soul non è da ignorare nemmeno la povera Amy Winehouse, senza appellativi, bianca, di padre ebreo, britannica, eppure perfettamente in stile. E queste sono solo alcune delle Sisters of Soul… e i Brothers? Ray Charles “The Genius”, Otis Redding, Sam Cooke, James Brown, Wilson Pickett… E cos’ha in comune questa accolita di Sisters & Brothers of Soul? Quasi sempre quella di aver cominciato a cantare gospel in Chiesa sperando in un Dio che offrisse condizioni migliori di quelle date, una vita problematica come risultato di un talento ingombrante rispetto a un mondo ostile. Tanta voglia di godere dell’esistenza senza riuscire a dimenticare rabbia e dolore rischiando di finire schiantati con l’acceleratore a tavoletta. Ma questo succede quando tiri fuori sempre tutta l’anima…
Una cultura enciclopedica quella di Antonio Bacciocchi, batterista con un bel palmarès, scrittore, blogger, editorialista e tanto altro. Una bella capoccia corredata da orecchie da intenditore. Leggendo Soul si ha l’impressione che abbia voluto mettere ordine (missione impossibile) a un universo sfuggente e difficile da governare. Lo fa offrendoci una sorta di catalogazione composta dalla narrazione del sistema produttivo e del milieu socioculturale e musicale di difficile replicabilità che aprì le porte a un ventaglio di forme espressive. Seguono – forse questa la parte più interessante - brevi ma esaustivi profili degli artisti degni di menzione (da Nina Simone a Smokey Robinson) per poi approdare a uno schema tassonomico delle varie declinazioni formali della musica Soul, altra missione impossibile. Ma va bene così: il trattato corre bene e fa venire voglia di stare col dispositivo attivo, pronti ad ascoltare o riascoltare questo o quel brano richiamato nel testo. Se questa è una Protobibbia del Soul avrei però una considerazione da fare con animo cordialmente dialettico: dire (a pag. 268) che appellare Fausto Leali come “Negro bianco” fosse politicamente scorretto è, a mio parere, opinabile. Non dovrebbe essere scorretto e soprattutto non lo era a quei tempi. Per i popoli di lingua neolatina dire “negro” non dovrebbe significare altro che intendere “nero” - un povero spagnolo come dovrebbe esprimersi? Perché asservirci all’ignoranza americana? Vabbè, hanno vinto loro e l’idiozia del politically correct appiccicaticcio… Ma ribadisco che negli anni ’60 nella parola “negro” non c’era alcuna connotazione dispregiativa, anzi, c’è stato un movimento di orgoglio razziale chiamato “Négritude” (termine coniato dallo scrittore senegalese Léopold Sédar Senghor) e c’è un omonimo brano di Mama Marjas… Restiamo in tema di pelle: una chicca, tra le tante che Antonio Bacciocchi ci regala, è l’avere incluso tra gli artisti citati Nino Ferrer, che negli anni ’70 conquistò il pubblico italiano -noi ragazzini compresi- e che, tra le altre cose, cantava Vorrei la pelle nera. Ma riguardo al tema razziale farei parlare Stevie Wonder che è uno che di Soul se ne intende (escludendo il brano I just called to say I love you che deve avergliela scritta il commercialista): “Non ho mai detto di essere un artista Soul. Quando sei Soul significa nero, quando sei pop allora sei bianco. Tutte stronzate. Se la musica è buona è buona”. Come dire: quando essere ciechi nel corpo migliora la vista dell’anima… Grazie, Antonio Bacciocchi, per l’immane, prezioso e improbo lavoro.