
In uno sperduto villaggio della Nigeria chiamato Dukana vive il giovane Mene, apprendista autista di pulmini. Dukana è una specie di oasi felice, quantomeno spensierata, dove i raccolti crescono bene e la sera si canta, si balla, si suona il tamburo nonostante circolino brutte voci, di problemi e scontri in altri villaggi e città. E gli abitanti di Dukana continuano a dire che per loro andrà ancora tutto bene, perché il vecchio e cattivo governo è morto e il nuovo governo, fatto di polizia e soldati, farà rispettare le regole e nessuno ti chiederà più mazzette per avere medicine o semplice tranquillità quotidiana. Mene, dal canto suo, è soddisfatto della sua vita, delle prospettive che gli riserva: una patente ufficiale, un pulmino tutto suo, una moglie. Così, tutti quei discorsi sul casino che sta arrivando, sui ragazzi che partono dai loro villaggi e si arruolano nell’esercito per andare a combattere non lo interessano. Certo, c’è il vecchio Zaza, reduce della Seconda Guerra Mondiale in Birmania, che ricorda come fosse bello e giusto e necessario combattere contro il famigerato Hitla (Hitler, nella mentalità tradizionale viene associato ad un nemico acerrimo e valoroso) che aveva interrotto l’arrivo del sale al villaggio, esattamente come sta accadendo ora. C’è poi Agnes, questa splendida ragazza con quel paio di tette che si porta appresso, che lo ama e lo amerebbe ancora di più perché, dice, al suo fianco vorrebbe un uomo coraggioso, capace di difenderla quando scoppierà il casino. E il casino arriverà anche a Dukana prima o poi. Chiamato con tutti gli altri ragazzi a Pitakwa (Port Harcourt), assiste alla parata di giovani arruolati, così fieri, così belli nelle loro uniformi pulite, che mangiano tre volte al giorno, che imbracciano un fucile al quale parlano come fosse una donna, un figlio, una madre. Ed ecco, il desiderio di diventare il primo soldato partito da Dukana si fa largo in Mane che, nonostante il parere contrario della madre, parte per arruolarsi e combattere contro un nemico misterioso. Ma chi è il nemico? Trascorse alcune settimane di addestramento, viene mandato al fronte, dentro una buca piena d’acqua, per controllare che il nemico non avanzi. Sì, ma di nuovo, chi è questo nemico e cosa vuole da noi? E quando il suo battaglione viene sterminato Mane, confuso e spaventato, scappa nella foresta, sopravvive a stento, viene catturato, passando poi ad indossare l’altra divisa, quella nemica. Ma che differenza fa quando ti danno una Landrover da guidare, tre pasti al giorno e la possibilità di tornare a Dukana per ritrovare la tua gente, tua madre, la tua Agnes. Ma la guerra è la guerra, indossare una divisa sbagliata nel posto sbagliato non va bene, scoprire che il tuo villaggio è vuoto, che tutti sono stati portati in campi profughi, che la guerra è morte, distruzione è un brutto colpo da sopportare. Inconcepibile, quanto il fatto che Dio non faccia nulla per non farlo accadere. Mane cammina, cercando tra i moribondi e i profughi notizie della madre e di Agnes, perché quel che conta ora è ritrovarle e ricominciare a vivere…
L’orgoglio di Mane d’essere diventato per tutti Sozaboy, un ragazzo soldato, è enorme. Tanto quanto l’inutilità di sapere il perché si debba combattere. In verità Sozaboy non sa cosa significhi fare la guerra, prendere uno e ammazzarlo. Tutto quel che riceve sono notizie mitologiche relative a fantomatici nemici che, come per gioco, possono ferirti, come per gioco possono mangiarti, ma senza recarti effettivo danno. Tutto quel che c’è da sapere, per Sozaboy, è che il soldato è il simbolo del coraggio, mangia tre volte al giorno, possiede un fucile, si fa rispettare da tutti. Perciò Mane si sorprende ogni volta che accade qualche cosa di brutto. Tutta la violenza diventa inconcepibile, senza scopo e direzione. Che venga dal nemico o dall’amico, non ha comunque senso. Camminare, camminare e ancora camminare. L’unica cosa che abbia senso per Mane è ormai questa. Un passo dopo l’altro per ritrovare la sua famiglia. Sozaboy è un romanzo toccante, scritto in quel rotten English (pessimo inglese), amalgama di pidgin nigeriano e inglese sgrammaticato, tradotto delicatamente in italiano, per far risaltare più possibile i passaggi poetici narrati. Ken Saro-Wiwa, barbaramente giustiziato nel novembre del 1995 dopo un processo farsa dal regime militare, fu un personaggio prolifico. Brillante scrittore, poeta, autore teatrale e televisivo, politico onesto, si batté contro lo sfruttamento dei territori degli ogoni, etnia alla quale apparteneva, da parte delle multinazionali del petrolio, che resero quelle terre invivibili. Ken è diventato un simbolo delle giuste rivendicazioni dei popoli sfruttati, dei territori usurpati a favore di un mondo ricco e sprecone, avaro di sentimenti quanto di giustizia. Sozaboy, di riflesso, rappresenta un libro-testimonianza altrettanto prezioso e commovente, necessario a far conoscere, a non far dimenticare quel che può succedere e succede davvero nel pezzo di mondo che non è il nostro, ma dal quale più o meno inconsapevolmente attingiamo ricchezza.