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Gabriel García Márquez

Gabriel García Márquez
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"La cosa peggiore che possa capitare ad uno scrittore in un continente dove la gente non legge è che i suoi libri siano venduti come salsicce".


Primogenito del telegrafista Gabriel Eligio García e di Luisa Santiaga Márquez Iguarán, Gabriel García Márquez nasce il 6 marzo del 1928 ad Aracataca, un piccolo villaggio della Colombia, a circa 80 Km dalla città caraibica di Santa Marta. Lo tirano su i nonni materni: il colonnello Nicolás Márquez, grande ammiratore di Simón Bolivar, e sua moglie Tranquilina Iguarán, dalla quale il giovane Gabriel apprende l’arte della tradizione orale. Dopo la morte del nonno, nel 1936, si trasferisce a Barranquilla dove inizia gli studi. Frequenta il Colegio San José e il Colegio Liceo de Zipaquirá, diplomandosi nel 1946. Gli studi di giurisprudenza, iniziati all'Universidad Nacional de Colombia di Bogotà, non lo coinvolgono più di tanto, ma sono gli unici che gli lasciano i pomeriggi liberi per lavorare e tirare su qualche spicciolo. Resiste un anno, anche perché l’Università chiude e 'Gabo' passa prima a Barranquilla per poi trasferirsi a Cartagena intraprendendo la sua carriera di giornalista. Sono anche gli anni delle prime novelle venute fuori da un humus interessante. A Barranquilla, infatti, García Márquez abita sopra un bordello, una benedizione per uno scrittore, perché “di giorno è una zona tranquilla, ma di notte ci si diverte e si incontrano personaggi interessanti”. Tornato a Bogotà nel 1954, inizia a lavorare per un’altra rivista, "El Espectador", per conto della quale viaggia in Europa e per la quale si trasferisce a Parigi. La dittatura di Rojas Pinilla, però, costringe il giornale a chiudere, e García Márquez decide di fermarsi nella capitale francese vivendo modestamente in un piccolo albergo della Rue Cujas. Agli amici che andavano a trovarlo, si presentava intabarrato in pesanti abiti e fasciato da guanti e sciarpe, letteralmente sopraffatto dal freddo e dai debiti. Proprio lui, abituato esclusivamente alle generose temperature caraibiche. Nel frattempo tutta l’America Latina è scossa dagli avvenimenti che si stanno consumando a Cuba. Fidel Castro, Che Guevara. La Rivoluzione. Anche Marquez si avvolge dell’entusiasmo per il nuovo vento che soffia sul subcontinente e visita Cuba, iniziando una collaborazione, prima da Bogotà e poi da New York, con l'agenzia “Prensa latina”, fondata dallo stesso Castro. Bene, dirà qualcuno, ma quando comincia il Marquez scrittore, quello di Cent'anni di solitudine, L’autunno del generale, L’amore ai tempi del colera? Ufficialmente nel 1961, quando lascia il giornalismo e va a vivere prima in Messico e dopo in Spagna e si afferma, nel 1967, con le storie che si intrecciano a Macondo in Cent’anni di solitudine, il romanzo che più di tutti gli spiana la strada della notorietà. In realtà, le sue radici come scrittore le pianta ancora prima di imparare a leggere: disegnando vignette. “Prima ancora di imparare a leggere e scrivere disegnavo fumetti a scuola e a casa”. La molla definitiva, però, scatta ai tempi dell’Università. Lì un amico gli presta un libro di racconti di Kafka, tra cui c’era "La metamorfosi". Lui stesso descrive così quell’incontro: “La prima riga quasi mi buttò giù dal letto. Rimasi stupito: Quando Gregor Samsa si svegliò quella mattina dopo sogni inquieti si trovò nel suo letto trasformato in un insetto gigantesco. Quando lessi quella frase mi resi conto che fino a quel momento non avevo creduto fosse possibile scrivere cose del genere. Se l’avessi saputo, avrei iniziato a scrivere molto tempo prima. Così mi misi subito a scrivere racconti”. Racconti intellettuali che non possono essere più lontani dalla scrittura matura con cui García Márquez ha abituato il suo pubblico. E infatti ad aiutarlo a disfarsi dell’impronta cervellotica ci pensano gli autori americani della Lost Generation, molto più concreti e materiali, totalmente aderenti alla realtà ed alla vita quotidiana. Un episodio poi gli permette di definire senza dubbio la sua impronta letteraria. Lo racconta così: “Era il Bogotazo, il 9 aprile del 1948, quando un leader politico, Gaitan, fu ucciso e la gente di Bogotà scese per le strade in preda a un folle delirio. Ero nella mia pensione e stavo per pranzare quando venni a conoscenza del fatto. Corsi sul luogo del delitto, ma Gaitan era appena stato messo su un taxi e portato all’ospedale. Sulla strada del ritorno per la pensione vidi che la gente era già scesa in strada a dimostrare, saccheggiare negozi, bruciare palazzi. Mi unii a loro. Quel pomeriggio e quella sera capii in che tipo di paese vivevo, e quanto poco i miei racconti avessero a che fare con tutto ciò. Quando poi fui costretto a tornare a Barranquilla, sul Mar Caribico, dove avevo passato la mia infanzia, mi resi conto che quello era il tipo di vita che avevo vissuto, che conoscevo, e della quale volevo scrivere”. Da quel momento, nonostante le lodi più sperticate dei critici vadano alla sua immaginazione, non scriverà più una sola riga senza che questa abbia attinenza con la realtà. Un lavoro costante, meticoloso, fatto spesso di studio e di ricerca dei dati. Una profonda conoscenza del proprio continente che nel 1982 gli vale il premio Nobel per la Letteratura. Una cosa di cui farebbe volentieri a meno considerata la sua profonda timidezza in pubblico ed il fatto che la crescente fama lo getti totalmente nell’imbarazzo. Detesta, insomma, essere trasformato in un fenomeno da baraccone anzi, peggio, commenta: “La cosa peggiore che possa capitare ad uno scrittore in un continente dove la gente non legge è che i suoi libri siano venduti come salsicce”. Ma alla madre, in Colombia, il Nobel vinto dal figlio non da assolutamente fastidio: “Sarà la volta buona – sospira sentendo Gabo dopo svariati tentativi di mettersi in contatto – che metteranno a posto il telefono”. Che sia una persona schiva ed il più possibile abitudinaria lo si capisce quando traccia la sua giornata tipo, come quelle trascorse durante la stesura de L’amore ai tempi del colera, scritto con piacere, senza patimenti e, si può dire, tutto d’un fiato (“C’è così tanto da dire sulla vita di due persone che si amano. È infinita”): sveglia alle 5:30 o alle 6 del mattino e solo 6 ore di sonno; dalle 6 alle 8 spazio alla lettura e dalle 8 alle 13 alla scrittura. Dopo il lavoro, passeggiata sulla spiaggia con la moglie Mercedes e gli amici. Il pomeriggio, dopo la siesta, è dedicato al girovagare alla ricerca di personaggi nuovi e posti in cui contestualizzarli. Il contesto ideale per quello che gli amici descrivono come “essere marqueziano”, uno che tesse continuamente storie intorno ai fatti, gonfiando quelli più insignificanti e trascurabili. Chi lo conosce giura che il Gabo, parla, scrive e vive in questa maniera: cercando il fatto più trascurabile della giornata limandolo, smerigliandolo, lavorandoci su fino a che alla fine della settimana non diventa un poema epico capace di vivere di vita propria. Sembrerebbe una vita monotona, troppo definita eppure non è così perché García Márquez, in realtà, ha una vita sociale molto intensa, impegnato politicamente e spesso frainteso da chi, all’occorrenza, abbia deciso di strumentalizzarne l’immagine perché grande amico di Fidel Castro. Talmente coinvolto nella turbolenta politica dell’America Latina, da farne il soggetto e l’oggetto del discorso tenuto in occasione della consegna del Premio Nobel; un discorso che avrebbe dovuto avere un’anagrafe ben precisa: “Deve essere un discorso politico, presentato come letteratura”. In sostanza, la sintesi della vita, dell’impegno e dell’opera letteraria di García Márquez.
 

 

I libri di Gabriel García Márquez