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Stat rosa

Stat rosa
Apertura dell’anima su di uno scenario composto di minime cose: oggetti e fenomeni naturali che pur nella loro irreversibile fatalità, restano confinati nel cerchio di una silenziosa immobilità. Lo sguardo vi si sofferma attento, accarezzandone delicatamente i contorni con mano consenziente e stupefatta. L’osservazione che si dilata nella situazione temporale dell’attimo e del suo morire, si traduce nel gesto dell’attenzione e nello spazio della meditazione, alla ricerca di un punto in cui la voce del poeta possa entrare in intimità con la natura e celebrarne le più intime essenze. E anche quando la brulicante atmosfera della notte reca le oscure avversità di una favola interrotta, il fascino dell’incanto trascolora, senza enfasi malinconiche, nella letizia consapevole di un dolore necessario da patire, per incidere la cifra di una piccola o grande partecipazione alla verità del mondo. E se Torino resterà sempre il nido dai toni rassicuranti di un passato che non dispiace, a Parigi è palpabile il forte disagio che mette in un viale di magre cortecce, strappato alle lusinghe delle guide turistiche, per poter continuare a dissertare d’identità domestiche e di donne che fanno male…
Fulminea e circolare, la poesia che reca per titolo Stat rosa prendendo l’abbrivio dall’esametro con cui si chiude Il nome della rosa di Umberto Eco - si carica della responsabilità di accogliere sotto il suo titolo questa seconda silloge del poeta Gianfranco Isetta, nato a Castelnuovo Scrivia (AL) nel 1949. Siamo in presenza di una raccolta di componimenti mai troppo lunghi o troppo brevi, spesso rapide e concatenate strofe che si leggono tutti d’un fiato, rivelatori di una compiuta maturità stilistica. Versi dove l’io resta defilato e mantenuto volentieri fuori campo, dissimulato nell’assorta meditazione di una natura, il cui riverbero possa ancora recare conforto e accendere lo stupore e l’immaginazione. Il naturalismo di questi versi, ma soprattutto le tecniche e le modalità espressive, ricordano il primo Montale, quello di Ossi di Seppia e più precisamente dei mottetti. E benché alleggeriti nel segno e liberi dal carico dissacratorio dell’ironia, non per questo i versi di Isetta presentano necessariamente un lieto fine. Anzi talvolta nella chiusa ritorna l’amaro retrogusto del disinganno nei confronti di un mondo che sembra volersi opporre con stolta virulenza ad ogni possibilità di comunione con esso.