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Stelle lontane della Croce del Sud

Stelle lontane della Croce del Sud

Argentina, 1950. Un treno con a bordo una dozzina di famiglie di operai provenienti da Terranova Bracciolini, Toscana, percorre da più di un giorno una sterminata pianura deserta. Milo, dieci anni, e suo fratello Alvise di nove, a intervalli regolari si affacciano al finestrino sperando di intravedere qualcosa di nuovo, magari gli indiani, o Indios, come li chiamano qui. Niente. Seduti di fronte ai due bambini, la loro madre con a fianco Sandro, il suo nuovo compagno dopo che è rimasta vedova. A differenza degli altri, loro sono originari di Verona e Sandro non è operaio ma Direttore della fabbrica tessile COTOSAN di proprietà del Commendator Grazzini. Era stato quest’ultimo a radunare operai e dirigenti dell’impresa: la guerra ha messo il Paese in ginocchio, il rischio comunista e i conseguenti espropri sono imminenti, l’Italia è finita, si chiude e si va tutti in Argentina, personale e macchinari. A ricostruire la fabbrica sul posto, ad allevare pecore e, con un impianto di lavaggio della lana in loco, la COTOSAN tratterà direttamente i propri tessuti da vendere in Sudamerica e in tutto il mondo. Ed eccoli in blocco verso una terra di speranza per poter essere finalmente ricchi, felici, rispettati. L’alternativa? Il licenziamento in tronco e la permanenza in un Paese che ha perso la guerra. Il Commendator Grazzini ha acquistato, a sud di Buenos Aires, un’enorme Estancia pronta ad accogliere i nuovi coloni, una meraviglia. A dirigerla è suo figlio Giancarlo, già lì da tempo, anche perché in Italia ha qualche carico pendente per via dei suoi eccessi da fascista repubblichino. Già. E Sandro è anche in credito con Commenda e figlio, visto che da Comandante partigiano è riuscito a sottrarre Giancarlo a un’esecuzione sommaria... E allora via al porto di Genova, tre settimane di navigazione, Baires, e ora questo treno che da più di un giorno attraversa una pianura gialla e deserta diretto a Pedro Luro, un posto che nessuno ha mai sentito nominare. Quando Giancarlo li accoglie alla fatiscente stazione d’arrivo è ubriaco fradicio. Il paese? Poche case malmesse. E la Estancia è altri venti chilometri oltre, in direzione del nulla...

Interminabile ed estenuante come le tre settimane di nave e i due giorni e mezzo di treno degli emigrantes nella Pampa monotona, ripetitivo fino allo sfinimento con concetti riproposti forse nel timore di non aver colto il bersaglio. Certo non aiuta lo stile alla ricerca di un lirismo che, lungi dall’ottenere l’effetto desiderato, finisce per abbassare il grado di coinvolgimento del lettore distraendolo con un abuso di arcaismi e di elisioni che contemplano – dialoghi compresi - lo “spuntar del sole”, i “meriggi”, “il rio destino”, “lì presso, sino a quella landa riarsa”, “il moccolo”, “il giaciglio”, il “s’ode uno stormir”, il “muovere il brando” e tante locuzioni al limite della “pargoletta mano”. Non so se questo sia il naturale incedere verbale di Emilio Barbarani, fatto sta che purtroppo sono molti gli autori di prosa e poesia convinti che l’affidarsi a un lessico desueto e pomposo – peggio ancora se nei dialoghi - possa nobilitare la scrittura. Passiamo il traguardo di pag. 100 e siamo appena arrivati a Pedro Luro: è ancora tutto in premessa. I personaggi che via via s’affacciano si rivelano molto caratterizzati nella forma esteriore ma privi di sfumature e profondità. Personaggi che nei dialoghi hanno tutti lo stesso stile verbale, che poi è esattamente quello dell’autore. Come si può far pronunciare a un bambino di dieci anni parole come “la sua mesta storia”, “l’albergare in cuor suo”, “ostile e bieco”, “sventurato”, che manco Edmondo De Amicis? Proseguiamo: a pag. 273 (le pagine in tutto sono 370) si realizza semplicemente ciò che era già più che largamente intuibile fin dall’inizio. Nel frattempo, una serie di episodi annunciati come eclatanti e sensazionali che poi tali non si rivelano. Pieni di indugi (quattro pagine per l’avvistamento di un ragno, forse velenoso, con il conseguente improbabile accorrere di tutti i paesani in massa armati di vanghe, pistole e fucili); un’enfasi intrisa di descrizioni tanto dettagliate quanto inutili nel probabile tentativo di dare vigore a un impianto narrativo esanime. Ad altri episodi del genere sono dedicate pagine e pagine che poi svaniscono nella narrazione senza lasciare traccia. In questi passaggi letterariamente ingenui, Stelle lontane della Croce del Sud finisce per somigliare a quei libri per ragazzi che negli anni ’70 la scuola consigliava come lettura complementare. Un esempio? Pensiero dedicato ai cani morti del protagonista: “Addio amici nostri di tante avventure e ore liete. (...) Riposate in pace, andate ora a correre nelle praterie del cielo. (...) Sarete sempre accanto a noi, nel nostro cuore. Quando il giorno del Signore i santi, tutti biancovestiti, se ne andranno cantando in cielo, anche voi verrete assieme a noi”. Questione di stile: nonostante ci sia molto di autobiografico, questo romanzo è la dimostrazione di quanto forma, impianto e approccio narrativo possano essere responsabili della perdita di sapore d’autenticità annacquando il grado di coinvolgimento del quale una storia è potenzialmente capace. Né più né meno come le battute o le barzellette: se le dici male non funzionano. Così i fatti, per quanto veri. Sono più vere le fantasie dette bene: Fellini, Montanelli, Dickens, Griot e Cantaores lo hanno sempre saputo. Purtroppo il conseguente distacco che il lettore subisce, fa saltare all’occhio alcune imprecisioni rendendole più pesanti di quanto non siano: Giancarlo che diventa “Gianfranco”, un alterco a due risolto unilateralmente con un (1) pugno che diventa “pestaggio” (ripetuto tre volte in tre pagine), una muta di cani bastardi e due levrieri che la pagina successiva diventano “molossi”, il termine “edificante” usato più volte a volere significare “esaltante”, l’Argentina “terra di sogni e di chimere come nella celebre canzone”... No. La canzone è il farlocco “Tango delle capinere” e non si parla d’Argentina ma di Arizona... Accade poco di fattuale, pochissimo di emozionale, nulla in termini di pensiero e riflessioni, tanto che spesso ci si chiede dove l’autore ci voglia portare. Per un romanzo che ogni inizio capitolo promette senza mantenere eventi mirabolanti, risulta imbarazzante leggere - ormai a pag. 361 - “I colpi di scena non sono ancora terminati” e doversi chiedere: “Quali? Sono forse mai iniziati?”. Prolisso e inconcludente, lascia l’impressione di correre i cento metri zigzagando attorno a inutili birilli, quadruplicando il percorso. L’affanno è inevitabile: ma le Stelle della Croce del Sud restano ancora lontane.