
Il cinema documentario non è il fratello minore di quello di fiction. E non è neanche un genere cinematografico. È cinema a tutti gli effetti, con una storia che parte dai Fratelli Lumière e arriva fino ai giorni nostri, ma con meno fortuna e celebrità. Con buona approssimazione lo si potrebbe definire un cinema che documenta, che racconta la realtà, senza reinterpretarla, come invece avviene nella finzione. Quello sull’importanza e il rapporto tra finzione e documentazione è un dibattito vecchio come il cinema stesso, e privo di risposte sostanziali e definite. Da sempre relegato alle sale minori, o addirittura al piccolo schermo (e ora all’home video) il documentario vive negli ultimi anni una nuova giovinezza: la tecnologia e il digitale hanno permesso a molte più persone di avvicinarvisi, soprattutto dal punto di vista realizzativo. E il successo di registi ormai divenuti di fama internazionale come il dibattutissimo Michael Moore ha contribuire a rivitalizzarlo, accendendo la passione degli spettatori e stuzzicando l’attenzione dei produttori…
Guy Gauthier nel suo saggio non sembra aver troppo chiara la strada da battere. Perché se da una parte il suo lavoro è contenutisticamente impeccabile, approfondito, informatissimo e profondo nelle analisi, dall’altra non ha un target di pubblico definito. Perché in un primo momento sembra essere un’opera introduttiva, che inizia il lettore alle pratiche e alla storia del documentario, ma dopo qualche capitolo il novellino non può che sentirsi spiazzato. Chiarissimi i passaggi storico-sociali, così come l’evoluzione di tecniche, approccio e contenuti, ma quando si arriva alla trattazione dei registi lo sguardo dello scrittore e quello del lettore dovrebbero coincidere. Nel senso che è quasi impossibile comprendere a fondo un regista come Robert Flaherty solo leggendone sul volume di Gauthier. Perché se il lettore può entrare nel mondo di un regista di fiction anche solo attraverso le parole di un critico, lo stesso può difficilmente dirsi per un documentarista. Perché, che lo si ammetta o meno, lo sguardo dello spettatore medio è molto meno avvezzo al cinema del reale. Per questo motivo il libro vive una doppia vita: si propone di introdurre all’argomento, ma lo fa con riferimenti fin troppo specialistici, diventando in alcuni momenti un lavoro dedicato ai più esperti. È invece innegabile il valore dell’appendice “Elementi per una filmografia mondiale”: oltre cento pagine di catalogazione e ricerca, in cui l’autore analizza, classificandolo per continenti (e al loro interni per paesi e zone di provenienza) il cinema di oltre trecento documentaristi, tracciandone le caratteristiche principali e riportando i loro lavori più importanti. Dalla Cina agli Stati Uniti, passando per Medio Oriente, India e Africa, Guy Gauthier prova a fare un po’ d’ordine nel mare magnum del cinema documentario, tracciando una mappa il più possibile intellegibile e precisa.
Guy Gauthier nel suo saggio non sembra aver troppo chiara la strada da battere. Perché se da una parte il suo lavoro è contenutisticamente impeccabile, approfondito, informatissimo e profondo nelle analisi, dall’altra non ha un target di pubblico definito. Perché in un primo momento sembra essere un’opera introduttiva, che inizia il lettore alle pratiche e alla storia del documentario, ma dopo qualche capitolo il novellino non può che sentirsi spiazzato. Chiarissimi i passaggi storico-sociali, così come l’evoluzione di tecniche, approccio e contenuti, ma quando si arriva alla trattazione dei registi lo sguardo dello scrittore e quello del lettore dovrebbero coincidere. Nel senso che è quasi impossibile comprendere a fondo un regista come Robert Flaherty solo leggendone sul volume di Gauthier. Perché se il lettore può entrare nel mondo di un regista di fiction anche solo attraverso le parole di un critico, lo stesso può difficilmente dirsi per un documentarista. Perché, che lo si ammetta o meno, lo sguardo dello spettatore medio è molto meno avvezzo al cinema del reale. Per questo motivo il libro vive una doppia vita: si propone di introdurre all’argomento, ma lo fa con riferimenti fin troppo specialistici, diventando in alcuni momenti un lavoro dedicato ai più esperti. È invece innegabile il valore dell’appendice “Elementi per una filmografia mondiale”: oltre cento pagine di catalogazione e ricerca, in cui l’autore analizza, classificandolo per continenti (e al loro interni per paesi e zone di provenienza) il cinema di oltre trecento documentaristi, tracciandone le caratteristiche principali e riportando i loro lavori più importanti. Dalla Cina agli Stati Uniti, passando per Medio Oriente, India e Africa, Guy Gauthier prova a fare un po’ d’ordine nel mare magnum del cinema documentario, tracciando una mappa il più possibile intellegibile e precisa.