
Saint-Pierre della Martinica, dicembre 1765. Lucien è poco più di un ragazzino, uno schiavo creolo al servizio dei Frères de la Charité. Mentre pascola le mucche una mattina lo mandano a chiamare: padre Cléophas in persona lo vuole vedere Possibile? Lucien dapprima nemmeno ci crede, pensa sia uno scherzo di Descartes, lo schiavo zoticone e un po’ ritardato che è venuto a cercarlo. Poi si convince e corre come un pazzo verso l’ospedale che i religiosi hanno costruito poco lontano. Padre Cléophas è nella camera mortuaria, sta ispezionando il cadavere di un bracciante: da qualche tempo ne muoiono tanti, almeno uno a settimana, di “una febbre che nessuna purga riesce a debellare”. Con sua grande sorpresa, Lucien trova là anche il fratello maggiore Emile, che ha quasi trent’anni. È imbronciato, sembra preoccupato: il motivo è che padre Cléophas gli ha assegnato una missione per nulla facile, recarsi a Grenada – un tempo territorio francese e ora in mano agli inglesi –, prendere contatto con gli schiavi che lavorano al locale ospedale e con i braccianti della piantagione di canna da zucchero (quarantadue persone in tutto) e riportarli là, a Saint-Pierre, dai Frères de la Charité. Padre Cléophas è convinto – sbagliando – che Emile sia interessato a svolgere quel compito perché tra quegli schiavi c’è anche Céleste, una schiava infermiera con cui il giovane ha avuto una relazione amorosa: arriva a fare la mezza promessa di riscattarlo dai padri domenicani a cui è stato ceduto qualche tempo prima e di concedere a lui e Céleste la libertà, se Emile riuscirà nell’impresa. Una impresa però tutt’altro che facile, perché gli inglesi ora considerano quegli schiavi una loro proprietà, non se li faranno certo sfilare sotto il naso e sono famosi per i loro metodi brutali. Un’impresa per giunta alla quale il religioso esige che partecipi anche il piccolo Lucien, che sa l’inglese, avendolo imparato da un tale Calder, e quindi potrà rendersi molto utile laggiù a Grenada…
La genesi del terzo romanzo di Jane Harris, irlandese di nascita e scozzese di formazione, è strettamente legata al suo privato, cosa insolita per un romanzo storico. Subito dopo la pubblicazione del suo esordio boom Le osservazioni e mentre stava scrivendo I Gillespie, la scrittrice – approfittando del benessere economico appena raggiunto dopo anni tutt’altro che facili da quel punto di vista – realizzò un suo sogno: visitare le Antille. Dopo aver superato (o quasi) la sua paura di volare grazie a delle sedute di ipnosi, la Harris partì per Grenada. In due saggi firmati da Beverley Steele e Raymond Devas che aveva letto per informarsi sull’isola aveva trovato un breve accenno a una storia che l’aveva colpita moltissimo: quella di un giovane schiavo mulatto che aveva guidato la fuga di decine di compagni dal dominio inglese. Con l’aiuto di Telfor Bedeau, una guida locale, volle ripercorrere il viaggio di quell’eroico schiavo senza nome, e grazie all’intervento dello storico John Angus Martin – allora curatore del Grenada Museum – ebbe accesso a un immenso archivio di fotografie, mappe e documenti storici. “Durante quei giorni di ricerca appassionata trovai anche una lista di nomi di schiavi che lavoravano nel locale ospedale attorno al 1760 e per onorare la loro memoria sono proprio quelli i nomi che ho usato nel romanzo”, racconta la Harris. Di ritorno da quel bellissimo viaggio, avrebbe voluto subito mettersi al lavoro su quello che poi sarebbe diventato Sugar money, ma c’era prima da finire I Gillespie: poi si sa come vanno le cose della vita e quel nuovo romanzo ha tardato qualche anno a vedere la luce. Eccolo oggi sugli scaffali delle librerie, con il suo sapore da vecchio romanzo d’avventura, con il fascino esotico dell’ambientazione, con l’accuratezza storica che gli dà spessore, con uno studio pazzesco sulla lingua dei personaggi (nel caso di Lucien, che è il narratore della storia, un misto tra creolo, francese, inglese, scozzese). Un affresco potente dell’orrore della schiavitù e al tempo stesso una vicenda incalzante e romantica che sarebbe davvero perfetta anche per il grande schermo.
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