
L’ironia della vita per George Hammond si manifesta al suo funerale: proprio lui, il “diavolo di Ackman”, che aveva favorito l’aumento della velocità sulla strada ferrata, costretto a fare il suo ultimo viaggio su un carro con una pariglia di sei cavalli che si muove con un’enorme lentezza, accompagnato dalla musica di un’austera brass band di New Orleans. Il padre di Igor Stravinskij, Fëdor Ignat’evič, era musicista al Teatro Imperiale di Pietroburgo; il piccolo Igor correva alla finestra ogni volta che sentiva la parata militare, correva alla finestra affascinato dai suoni degli strumenti luccicanti, appena poteva sfuggiva alla balia per arrampicarsi al pianoforte del papà e giocare con i tasti. Una passione che lo ha portato a studiare con il maestro Rimskij-Korsakov e gli è stata utile per guadagnare qualche rublo accompagnando i cantanti con il pianoforte durante tutto il periodo degli studi di giurisprudenza, completati solo per dovere. Dall’altra parte del mondo a partire dal 1905, nel ghetto ebraico di Chicago, David e Dora Goodman generarono i lori figli: Lena, Henry, Fred e il piccolo Benjamin David. Un pomeriggio, durante la passeggiata domenicale, la famiglia sente provenire dalla sinagoga il suono di una tromba, papà David si informa e scopre che per ben un quarto di dollaro a bambino avrebbe potuto far studiare musica ai propri figli. Una cifra importante per un sarto, ma i coniugi condivisero la decisione e così a Henry fu dato il basso tuba, a Fred la tromba e a Benjamin, il piccolo Benny, il clarinetto…
Swinging Stravinsky è un romanzo non privo di humour ma anche un po’ saggio, con cui Biagio Bagini racconta la formazione e il percorso artistico di Stravinsky e Goodman, che riuscirono a incontrarsi solo nel 1965, quando Igor scelse il “re dello swing” per registrare una nuova versione di Ebony. Un libro frutto di un lavoro di trenta anni di ricerca e nato dalla seduzione del “fascino della complessità dei linguaggi musicali, dall’altisonanza dei nomi e dalla prospettiva, che trovavo stimolante, di mettere a confronto mondi apparentemente lontani per trovare un punto di fusione”. In effetti il risultato è proprio una narrativa funambolica che ruba termini al jazz, alla classica, al rock per raccontare l’America e la storia della musica dagli anni ’40; pagine disseminate di citazioni musicali e improvvise apparizioni di artisti del cinema, della letteratura, del ballo. Non solo musicisti, ma idoli indimenticabili che si passano il testimone e fanno la loro parte nella geniale contaminazione dei generi. Un’opera narrativa dal ritmo jazz, poetica, dal lessico ricco, in cui i dati biografici e una “carrellata” di citazioni, che sono riportate in un capitoletto finale, si fondono con l’invenzione letteraria, restituendo il fermento creativo che ha portato a sciogliere ogni rigida separazione; perché in fondo, la distinzione tra gli stili musicali è solo una convenzione: la musica, più o meno godibile, è solo musica.