
Zach Wells e sua moglie Meg sono una coppia di professori afroamericani – di Geologia e Paleobiologia lui, di Letteratura lei – che vivono in una bella casa di Altadena, a nord di Pasadena, in California. Lui passa le giornate a studiare resti ossei di uccelli preistorici ritrovati in una cavità chiamata Naught’s Cave, nel Grand Canyon (e a fare lezione su questo all’università), lei scrive raffinate poesie molto apprezzate dalla critica ma abbastanza criptiche e fa yoga. Sono una coppia come tante, mai felici quanto vorrebbero e mai innamorati quanto dovrebbero. Hanno una figlia, la dodicenne Sarah, una ragazzina dolce e brillante che ama giocare a scacchi con suo padre per ore e ore. È proprio durante una partita di scacchi che l’incubo comincia: Sarah ha una brevissima incertezza, una strana “assenza” momentanea. Al momento nessuno dà peso alla cosa, ma gli episodi di questo tipo si iniziano a verificare sempre più frequentemente, anche a scuola. Sarah afferma di non vederci bene, quindi Zach e Meg la portano da un optometrista, che però non riesce a capire quale possa essere il problema: così, prendono appuntamento dalla pediatra. Anche la dottoressa Terence però non cava un ragno dal buco e prescrive a Sarah una visita specialistica dall’oftalmologo. Se ne parla tra tre settimane. Intanto Zach deve affrontare due piccole grandi grane anche al lavoro: una studentessa che lo corteggia in modo sfacciato e una giovane collega, docente a contratto specializzata in terremoti, che cerca il suo aiuto perché teme di non essere riconfermata a causa dei suoi risultati deludenti nel campo della ricerca. Come se non bastasse, Zach trova nella tasca di una giacca cerata comprata su Ebay un piccolo biglietto con una scritta a penna: “Ayúdame”, “Aiutami” in spagnolo. Chi lo avrà scritto e infilato nella giacca? Il cuore e la mente di Zach sono incalzati da più fronti, il tranquillo professore californiano – con un passato nei marines che nessuno sospetterebbe a prima vista – comincia ad annaspare…
Il ventunesimo romanzo di Percival Everett potrebbe essere quello che finalmente lo porterà in vetta alle classifiche di vendita e farà conoscere al grande pubblico uno dei più talentuosi scrittori statunitensi degli ultimi decenni. Per motivi letterari, certo, ma anche per una intrigante trovata commerciale (ammesso che si tratti davvero di questo). Telefono è un romanzo commovente, appassionante, perfetto per un film, con un plot articolato sì ma senza gli sperimentalismi che hanno spesso caratterizzato la prosa di Everett – a meno di non voler considerare tali le mosse sulla scacchiera che intervallano i paragrafi –, senza le citazioni colte e le digressioni filosofiche alle quali ci ha abituato. Solo la storia emozionante di un borghese normale e anzi un po’ nerd che viene travolto dalla peggiore tragedia umana possibile, alla quale è costretto ad assistere impotente. Così, alla prima occasione – e occasioni del genere, se ci riflettiamo con attenzione, ne capitano molto spesso nella nostra vita di borghesi normali come Zach Wells, solo che ci guardiamo bene dal coglierle – decide di ribellarsi alla sua impotenza e per riscattarsi si imbarca in una impresa nobile e pericolosa, mettendo in gioco la sua stessa vita. Fin qui i motivi letterari per cui Telefono è un grande libro. E la trovata di cui sopra? Everett ha scritto tre versioni del romanzo. Tre versioni della stessa storia che differiscono per alcuni particolari, a volte apparentemente trascurabili a volte più corposi, e soprattutto per i tre finali, simili ma diversi. Le tre versioni sono state pubblicate contemporaneamente, senza avvertire (negli Stati Uniti) né addetti ai lavori né lettori. “Onestamente, e letteralmente, questo era un esperimento”, ha spiegato lo scrittore in un’intervista. “Non avevo idea di come la cosa sarebbe andata. Volevo vedere come i diversi recensori e lettori avrebbero affrontato la discrepanza tra le loro descrizioni del libro”. Solo dopo parecchio tempo lo “scherzo” avrebbe dovuto essere rivelato, ma la pandemia di COVID-19 ha cambiato le carte in tavola e la cosa è stata resa pubblica quasi subito, disinnescando la vis situazionista dell’idea di base e trasformandola in qualcosa di simile alle cover “variant” dei fumetti Marvel o Image che furoreggiavano negli anni Novanta. “I libri non sono così diversi. Ci sono cambiamenti nel linguaggio e cambiamenti in alcuni eventi. Ma se li leggi tutti e tre non hai l’impressione di leggere un libro diverso. Finiscono in modo diverso, sì, ma con le stesse persone nella stessa circostanza”, spiega ancora Everett. In qualche caso le differenze sono addirittura errori voluti, a sottolineare la fragilità della comunicazione, l’intrinseca inadeguatezza del raccontare e quindi della letteratura. Il titolo del romanzo non ha nulla a che vedere con la trama, fa riferimento al gioco che da bambini qui chiamavamo telefono senza fili, in cui una frase si trasformava gradualmente passando di bocca in bocca fino a diventare qualcosa di sottilmente ma ontologicamente diverso. Quello che Everett qui vuole celebrare è il potere del “quasi”, riflettendo al contempo anche sulla inadeguatezza della nostra comprensione. Delle cose, delle persone, di noi stessi.