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Tempesta madre

Tempesta madre

L’autogrill di Capodimonte dove sua mamma l’ha portato per festeggiare è semideserto. È giovedì e anche quel carnevale lei l’ha vestito da Hitler. Ora lui è lì vicino all’uscita, con la sua copia del Mein Kampf a forma di trancio di pizza, che l’aspetta. Lei è andata in bagno non prima di aver denigrato in tutti i modi le mamme dei suoi compagnetti, ree di non avere senso dell’umorismo per non averli invitati ancora una volta alla loro festa di carnevale. Le donne che escono dal bagno lo guardano stupite, la sua quando esce fuma e piange, le due cose che sa far meglio. A casa, sua mamma fa l’imitazione della suora del Santa Sofia, dice imitandone la voce che sua madre deve smettere di fumare davanti al cancello della scuola e che deve portarlo dal dentista perché ha i denti storti. A lui piace un sacco quando fa così, soprattutto perché poi finiscono sempre per terra tenendosi la pancia per le risate. Lui l’adora la sua segretaria – la chiama così perché di mestiere fa la segretaria della Brahms edizioni musicali – e sicuramente la sua intelligenza deve averla ereditata da quel ramo della sua famiglia, non certo da quell’altro, dove albergano solo falliti macellai con la terza media, come suo padre, che da tempo non vive più con loro... Quando la ricoverano Jacopo ha trentun anni e lavora ai servizi sociali del Comune. Partecipa a tutti i corsi di formazione che gli propongono col solo intento di rimorchiare qualche collega, ma per ora con scarsi risultati. Quella notte una vicina di casa l’ha riconosciuta, girava in un abito bianco da sposa, vagava senza meta per il quartiere. Era stato suo padre ad accompagnarla in ospedale. Di loro due insieme Jacopo ricorda soprattutto le liti, le urla: in italiano quelle della segretaria, in napoletano quelle di suo padre. I medici hanno detto che la devono trattenere per qualche controllo. L’hanno sistemata a letto e lei sembra essere tornata tranquilla. L’abito di tulle insozzato è in un angolo e il suo viso è sempre bellissimo, anche ora che fissa il vuoto. Jacopo ripensa alla loro cucina coi mobili marroni, alle mille sigarette che lei spegneva nei piatti sporchi. Per una vita si era preoccupata di lui, ora per la prima volta la malata è lei…

Gianni Solla, qui alla sua terza opera – esilarante il suo precedente Il fiuto dello squalo –, si conferma scrittore di razza, capace come pochi di coniugare e maneggiare leggerezza, poesia, ironia, profondità e compiutezza, dando vita a personaggi e storie che ti vanno dritti al cuore. Come il suo Jacopo, bambino taciturno, fissato con le gambe delle sue compagne e soprattutto con la scrittura, che esercita appena può – come gli allenamenti di Rocky – nella cella frigo della macelleria di suo padre, e la sua strampalata mamma, uragano che tutto stravolge e conquista ma anche distrugge, con i suoi modi anticonvenzionali, ma capace di un amore smisurato che va oltre i banali schemi educativi. Un legame tragico, indissolubile e mai banale quello tra “due giganti dell’infelicità”, come lo stesso Solla li ha definiti, che si cementerà e detonerà negli anni futuri quando Jacopo ormai trentenne goffo e inadeguato soprattutto con le donne, con quella strampalata e fallimentare educazione sentimentale alle spalle dovrà venire a patti, visto che da figlio dovrà forzatamente e velocemente trasformarsi in genitore di quella stessa madre con la cui fragilità si troverà per la prima volta a doverne fare drammaticamente i conti.