
Seduta accanto a sua madre al bancone posto dinanzi alla finestra, aspetta il cibo appena ordinato. Ha ricominciato a piovere, come accade spesso a Tokyo in autunno, di quella pioggia fine e instancabile. Le ha sorprese all’uscita del museo e, nonostante gli ombrelli, la sua insistenza le ha costrette a trovare rifugio in un locale sulla strada. Quel viaggio era stato progetto nei minimi dettagli l’anno prima. All’inizio sua madre era sembrata riluttante, ma pian piano quel secco no si era trasformato in un sì. La meta – il Giappone – scelta per far conoscere a sua madre il Paese mettendola a suo agio: un luogo sconosciuto, ma non distante dalla loro cultura. Mentre aspettano i piatti, la osserva di soppiatto. L’eleganza innata, il modo di sedersi dritta ma senza risultare rigida, il semplice usare le bacchette senza che queste si incrocino mai… tutti tratti che lei avrebbe voluto ereditare ma che, chissà per quale sfortunata coincidenza, non ha acquisito, sviluppando un carattere e un modo di stare al mondo ben lontano e diverso da quello di sua madre. Distratta dal movimento fuori della vetrata, si sofferma ad osservare la gente che entra ed esce dai negozi sulla strada; una scena familiare, che la riporta all’infanzia ma non a quella sua, ma a quella di sua madre. Una infanzia di un’epoca, in un Paese, che non le appartiene e che pure sente così vicino…
È un esordio al tempo stesso delicato ma incisivo, quello di Jessica Au che decide di affrontare il delicato tema dei rapporti umani e familiare nel suo Tempo di neve. Un viaggio in Giappone di una madre e una figlia, ormai lontane nella vita quotidiana, è lo spunto per l’inizio di questa esplorazione non solo di un Paese sconosciuto ma anche (e soprattutto) del legame che le unisce. Attraverso descrizioni quasi eteree che attingono agli immaginari giapponesi resi vividi dai film di Hayao Miyazaki, la Au conduce il lettore in un viaggio personale narrato dalla sola voce della protagonista; a ricostruire il passato i flashback, che riportano sensazioni, memorie e situazioni messe a confronto con quelle vissute nel presente. L’assenza di un discorso diretto, la descrizione di scene quotidiane, la non divisione in capitoli e l’uso di uno stile onirico simile a quello di Haruki Murakami (penso in particolare a Norwegian Wood e La Ragazza dello Sputnik) trasmettono la sensazione di essere all’interno di un sogno, in cui le scene non sono mai nitide. Una sensazione richiamata anche dal titolo, che allude a quel silenzio ovattato tipico delle giornate nevose. Tradotto in oltre quindici lingue e vincitore del Novel Prize, Tempo di Neve cerca, con delicatezza, di ricostruire la complessità che c’è dietro i rapporti umani, in particolare quello tra madre e figlia caratterizzato – in questo caso – da una distanza dettata da generazioni, educazione e obiettivi diversi e che per questo sembra quasi essere incolmabile.