
Giuliano se ne sta immobile, come paralizzato, fuori dalla camera mortuaria numero 3 del cimitero di Sant’Anna che accoglie l’ultimo riposo di Giuliano, l’amico a cui la morte ha trasformato in farsa l’intera vita. Lo hanno paludato in un abito formale, di quelli che detestava, che lo facevano schiumare di rabbia alle manifestazioni del Primo maggio; gli hanno messo tra le mani nientemeno che un rosario, a lui che avrebbe sgranato le cinquantanove preghiere dei coralli in un’unica potente bestemmia. Stefano, il sanguigno comunista che ha trascorso decenni a lottare contro le eresie staliniane, l’uomo che ha smesso di votare e cucinare cosce di pollo alle feste dell’Unità dopo il patto scellerato della Bolognina, proprio lui che sognava di andarsene sulle note di Bella Ciao accompagnato da una banda musicale con compagnia cantante, viene congedato dal mondo con poche formule di circostanza, le preghiere cantilenate di un prete, l’imitazione della vedova resa poco credibile da una moglie separata che ha trascorso gli ultimi dieci anni a odiarlo. Giuliano sente di non avere diritto a piangere l’amico che ha tradito in molti modi e durante il rito funebre si perde nel passato. In quel cimitero ha già accompagnato un padre dispensatore di terrore e violenza, incapace di amore, che gli ha insegnato solo a non piangere e la cui morte è stata una gioia, ma, soprattutto ci ha lasciato l’amico Mirko, l’altro membro del trio Tira la bomba!. Mirko è lo sfigato per scelta, quello intrappolato dalle convenzioni, dalla vergogna di aver subito l’onta delle corna più anticonvenzionali, da una madre asfissiante e da un lavoro che odia, ma è anche il terzo vertice di un triangolo che è rimasto insieme per oltre cinquant’anni; nati nello stesso rione, anche se con caratteri diversi, si sono trovati nei giochi spensierati di bambini e, troppo fifoni per un patto di sangue, hanno sancito la loro amicizia il giorno che hanno ritrovato una bomba inesplosa e l’hanno sepolta sotto un platano insieme a un contratto che li vincola ad essere amici per sempre, a combattere contro i traditori e le ingiustizie…
Pino Roveredo crea un intreccio che segue il dipanarsi di tre vite oneste, semplici, pulite, pur se gravate dalle ambasce di infanzie tutt’altro che serene, tre vite che si incontrano nelle strade di un rione triestino all’ombra dell’Italsider e si scelgono, decidendo di bastarsi per sempre, di fare fronte unico contro il mondo, di beffarsi della vita e della sfiga, finanche di sacrificare a lungo la propria felicità personale sull’altare di questa amicizia. Il trio di Tira la bomba è un esperimento inedito per la narrativa di Pino Roveredo, che abbandona i diseredati che popolano spesso i suoi libri per avventurarsi nel campo del memoir e dell’amicizia di lungo corso con uno stile che, trasudando l’amarezza e sconforto della prospettiva adulta, finisce per non rendere un buon servigio al tema. Un’amicizia a tre durata alcuni decenni è difficile da far raccontare ad un unico sopravvissuto e la narrazione dalla prospettiva di un superstite per di più gravato dal rimorso si inceppa spesso, finisce per diventare artificiosa, singhiozzante, poco scorrevole e lacunosa. Il registro linguistico usato nella rievocazione fatta da Giuliano dei suoi amici è piatto e univoco, non registra picchi o peculiarità, i toni si stemperano in una lingua brumosa e monocorde nella quale spicca spesso una ricercatezza che poco si confà ai personaggi.