
A Pàvana il tempo è dilatato, verodìo. I ricordi hanno preso il posto della realtà e sono più numerosi gli abitanti che c’erano di quelli che la popolano ora. Il fiume, però, è sempre lì che scorre desolato e senza troppa forza ormai lungo il suo solito tracciato. Nessuno lo frequenta più per il proprio lavoro come succedeva in passato, quando gli scalpellini tagliavano al ritmo quasi musicale dei loro strumenti le pietre o squadravano i bolognini. Dal suo greto non passano più i giovani che raccoglievano i rami di salice che venivano mondati per essere poi usati per impagliare o intrecciare panieri di vimini. Quelli poi che abitano ancora nella zona, poi, non si sognerebbero di fare il bagno nelle sue acque, nudi o con scomodi costumi di lana, come accadeva una volta, quando non bisognava essere “strascini” per divertirsi a nuotare in quella piscina naturale. Non ci sono più neanche i villeggianti a prendere il sole d’estate e ad affittare le case. Anzi, i villeggianti non si vedono più. Nessuno deve più spostarsi in cantina per fare spazio utile – portatore di un po’ di denaro - a quelli di fuori. Le ferraresi, le bolognesi e perfino le francesi “di ritorno” – figlie o nipoti di chi da qui se n’era andato in cerca di prospettive migliori – non occupano più i pensieri dei baldi giovani che speravano in un’educazione sentimentale estiva degna di un bel film del cinematografo. Quanti passavano per i sentieri che portavano a Pàvana? Tutti si muovevano lungo le sue strade sterrate per raggiungere il lavoro nei campi, il moroso o la Chiesa. Adesso quei percorsi di vita sono aridi e abbandonati, monumenti di quella vita che non c’è più…
Quando si parla di Pàvana non si può non pensare a Francesco Guccini che con la sua musica ha celebrato il piccolo borgo in cui vive. I suoi estimatori si ricorderanno di quel “ricordo lasciato fra i castagni dell’Appennino”, incastonato tra la Toscana e l’Emilia-Romagna, luogo che non è mai di passaggio, ma che accoglie - con la classica diffidenza di montagna – chi vi si trova. Il sottotitolo spiega che parliamo di un paese che potrebbe essere dimenticato, se non ci fossero abitanti come Guccini che non accetta quell’imbrunire dell’oblio (“tralummescuro” in dialetto significa proprio quello: il momento della giornata in cui le luci lasciano spazio alla notte). Il linguaggio utilizzato è orgogliosamente paesano, con tanto di note a piè di pagina a cercare di spiegare a chi è forestiero le sfumature a tratti poetiche di alcuni termini utilizzati (un discorso a parte lo meriterebbe l’eventuale pronuncia di parole come “cisgevda” o “msuragn-gnole” che potrebbero essere uscite da un racconto di Tolkien), che non fanno altro che impreziosire e rendere più familiare la narrazione. Sembra di essere davanti ad un camino ad ascoltare un cantastorie che conosce bene la zona in cui vive. Il calore trasmesso è tanto e ci si augura che Pavana, che come molte piccole comunità montane ha, purtroppo, un futuro incerto, possa rimanere lì dov’è e com’è e non soltanto nelle canzoni o nei romanzi di un poeta. Utile il glossario che chiude il volume. Molto bello il dettaglio in copertina de “La Processione” di Gino Covili, anche lui figlio degli Appennini e delle leggende tosco-emiliane.