
Giappone, primi anni ’60. Sulla costa della penisola di Izu, a sud-ovest di Tokyo, sorge il piccolo paese di pescatori chiamato Iro. Sulla banchina del porto, con il suo viso molto truccato all’ombra di un parasole azzurro, Yūko accoglie il giovane Kōji, che è reduce da un anno e mezzo di galera. Lo ha chiesto in affidamento nonostante la perplessità delle autorità. Si è giustificata così: “In fondo ha agito così per me”. Ed è proprio così: Kōji è stato condannato per aver percosso alla testa con una chiave inglese il marito di Yūko, Ippei, ferendolo gravemente e riducendolo ad un ebete non autosufficiente. E ora, incredibilmente e morbosamente, i tre vivranno sotto uno stesso tetto. La storia di questo terzetto comincia due anni prima. Ippei, proprietario di un negozio di ceramiche occidentali e a tempo perso saggista e letterato, uomo elegante ricco e libertino, è uso durante i periodi di festività assumere temporaneamente come commessi alcuni studenti universitari. Tra questi è capitato Kōji, per il quale Ippei sin da subito prova una istintiva simpatia, al punto di raccontargli le sue avventure extraconiugali. Gli parla anche ovviamente di sua moglie Yūko, “una donna strana, terribilmente tollerante”, che non mostra mai gelosia, forse per troppo orgoglio o per una sorta di freddezza nascosta nel cuore. A sentirne parlare così, senza sapere perché, Kōji si ritrova innamorato di questa Yūko senza nemmeno averla mai vista…
Scritta in parte in Italia (si racconta che la notte di Capodanno del 1961, a Milano, dopo aver assistito al Teatro alla Scala ad una rappresentazione del “Fidelio” di Beethoven diretto da Herbert Von Karajan, l’autore si precipitò in albergo a scrivere di getto il finale del romanzo), quest’opera di Yukio Mishima – considerata non si sa perché tra le sue minori – è il racconto di un inquietante triangolo amoroso in cui il grande assente è proprio l’amore. I contorti rapporti tra i tre protagonisti, infatti, sembrano più lo specchio di personalissime nevrosi ed ossessioni che non di reale interesse verso l’altro. Noia, nichilismo, disperazione e una sorta di suicida indolenza che somiglia tanto al mal di vivere li costringono a traiettorie prestabilite, li lanciano a tutta velocità su binari che portano solo alla catastrofe, come fossero marionette manovrate da divinità crudeli e non esseri umani dotati di libero arbitrio. Lo stile di Mishima è forse qui meno ricco che altrove, ma l’assenza di autocompiacimento giova alla narrazione, che altrimenti sarebbe sfociata nel feuilleton fine a se stesso. Un piccolo, morboso gioiello dimenticato.