
“Entrai e morii. Furono le quattro giornate di Napoli, le mie, personali, ad uccidermi”. Soltanto quattro giorni di confusione e delirio, “quattro come i bracci del crocifisso a cui ho inchiodato i miei anni cristici”. Ha proprio trentatré anni l’avvocato Virginio Mogliazza – tanti progetti e speranze – quando viene ricoverato scarno e febbricitante nel manicomio provinciale di Napoli, dopo che uno scoppio di rabbia e un istinto bestiale lo hanno reso pericoloso per sé e per gli altri, “anche se non ero più io, la malattia era me”. È cominciato tutto da quella prescrizione del medico, quando lui era molto giovane. Soffriva di un male ai polmoni e la cura prevedeva grosse quantità giornaliere di vino. Ma forse il vero problema è che Virginio non ha mai ascoltato il suo corpo, quando gli chiedeva di rallentare, “Io non ho mai vissuto, ho ruzzolato”… Maria Michela Guarino entra nel manicomio nel 1871, anche lei a trentatré anni. Fino alla fine dei suoi giorni – che giunse fuori da quelle mura – lei ha vissuto con la sua maledizione, “la maledizione del sangue”, la maledizione di ogni donna. Lei, che per tutta la vita ha aspettato che quel sangue si fermasse ad annunciarle finalmente che un bambino era dentro di lei, muore “con un utero ancora capace di procreare”, eppure ostinatamente infecondo per tutti quegli anni. “Noi donne con il sangue abbiamo un rapporto particolare, privilegiato, assoluto. Fin da ragazzine ci abituano, vecchie megere, a interrogare le macchie di sangue che almeno una volta al mese ci aspettano al varco tra le gambe. […] Per amore di onestà dobbiamo anche dire che, proprio in quanto megere, talvolta interpretiamo le macchie di sangue a seconda della nostra volontà”. Troppe delusioni, troppe volte Michela si deve arrendere, troppo a lungo l’ossessione di quel figlio che non arriva la consuma. Suo marito Raffaele non capisce, “In manicomio, in manicomio ti devo portare”… Renato Caccioppoli di anni ne ha trentaquattro quando viene ammesso nel 1938. Il suo un caso stranissimo. “Un neuropatico con tendenza all’eccentricità, alla melanconia e alla contraddizione, io che la contraddizione la usavo nei ragionamenti di logica”. Ma è follia “mostrare intolleranza verso ogni formalità sociale”? Certo, portare al guinzaglio un gallo è meno grave del “sentimento di ribellione verso quel fottutissimo regime fascista”. Renato però vive preso dai suoi pensieri, si nutre di regole e teorie matematiche, musica e poesia, per “rintracciare l’armonia della vita”; in manicomio l’angoscia gli si siede sul petto “pesante come un cinghiale”, l’insonnia è il suo tormento, il suo demone notturno. A volte i suoi numeri riescono a distrarlo – “con i numeri mi sentivo al sicuro, protetto nella mia fragilità di uomo dinnanzi alla vastità dell’infinito” – ma la depressione lo conduce a lunghe ore di mutismo. Tutti lì dentro sono spaventati dalla vita, proprio come Renato, ma a lui “è sempre mancato il coraggio di attraversare la malattia e accettarla”, e anche quando i medici decidono che è in via di guarigione, anche se è fuori dal manicomio, anche se si è disintossicato dall’alcool, anche se il suo nome e i suoi scritti acquistano peso sempre maggiore tra i colleghi e nelle accademie, Renato Caccioppoli continua ad inseguire la morte, fino a deviare definitivamente il suo “destino verso l’infinito, […] bastò solamente un colpo di pistola”…
In una bella intervista, Anna Marchitelli – giornalista, ha scritto per le pagine culturali del “Corriere del Mezzogiorno” e “la Repubblica” edizione di Napoli, autrice di una raccolta di poesie – ha detto che la 180 (la legge Basaglia del 1978 che chiuse i manicomi, anche se in molti casi per parecchio tempo continuarono a funzionare) è stata uno spartiacque perché ha nettamente cambiato la percezione della malattia mentale da demenza a patologia da curare. Dice ancora che si trattò di una battaglia durissima, anche nei confronti di molte famiglie che vi si opposero per l’incapacità, e a volte la poca volontà, di affrontarne le conseguenze. Vero è che l’ex manicomio di Napoli fino a circa sedici anni fa pare avesse ancora un centinaio di pazienti ricoverati. L’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli – una specie di fortezza che si erge in Calata Capodichino sin dal 1897 – era una vera istituzione, chiusa definitivamente nel 1999. Il suo ricchissimo archivio conta circa 60.000 cartelle cliniche, comprese quelle del precedente manicomio provinciale nato nel 1874 nel complesso di San Francesco di Sales. Nel 40° anniversario della Legge Basaglia, la giornalista napoletana, grazie alla collaborazione nata con l’ex dirigente del polo archivistico che le ha permesso di realizzare lunghe e approfondite ricerche, sceglie di sottrarre all’oblio tredici di queste drammatiche storie contenute in quelle cartelle, mescolando vita vera e finzione letteraria. Tredici – anzi 12 + 1 dice l’autrice, perché una appartiene al matematico Renato Caccioppoli, sano ma antifascista e per questo esposto a rischi che la zia riuscì a mitigare convincendo le autorità della sua incapacità di intendere e volere per risparmiargli la galera – un numero dalla forte valenza simbolica che indica disordine, ma anche morte e rinascita, nonché coincidente con la data precisa della Legge Basaglia, 13 maggio 1978. Ed ecco, in ordine cronologico crescente (che bene le incastona tra gli eventi e i più noti personaggi storici), le storie di questa Spoon River dei folli, come è stata felicemente definita, che ci commuovono, ci fanno rabbia e poi tenerezza, raccontate con delicata intensità. Alcuni sono personaggi piuttosto famosi, come appunto il matematico Caccioppoli, che realmente passeggiava con un gallo al guinzaglio ma per dileggiare l’impedimento fascista per gli uomini a portare a spasso i cani perché poco virile (anche se poi in manicomio ebbe coscienza delle sue reali fragilità, ovvero di soffrire di insonnia e depressione), o come il primo pentito di camorra Gennaro Abbatemaggio, il quale ogni volta che si sentiva nel mirino di polizia e affiliati si faceva rinchiudere, o come l’anarchica Clotilde Peani o il ribelle Emilio Caporali. Narrate in prima persona, queste brevi autobiografie sono tristi allo stesso modo – come ha detto Alberta Basaglia, figlia di Franco, ad una presentazione alla quale ha preso parte, “si tratta di storie universali, le storie di tutti i manicomi” – ma allo stesso tempo diverse tra loro, e non soltanto per epoca storica; in molti casi è evidente come ogni carattere, ogni gesto, ogni convinzione che in qualche modo contravvenisse alle convenzioni sociali o politiche, fosse soggetta allo stigma della follia. E non vi era, allora, prima di Basaglia, alcuna riabilitazione, le “cure” spesso discutibili erano mirate esclusivamente alla soppressione e alla prigione. Come ebbe a dire lo stesso Franco Basaglia intervistato da Maurizio Costanzo: ”Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c'è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione”. Anna Marchitelli aveva già pubblicato diversi articoli che raccontavano queste storie, ma dice di aver sentito la necessità di raccontare in maniera più ampia per riscattare il loro destino amaro e per dare voce a queste che sono state persone prima che folli e casi clinici. Il suo, naturalmente, non è un approccio medico – sottolinea – ma prima umano e poi letterario, “di empatia verso persone di cui si conserva traccia nei documenti”. E ancora, “ciò che mi ha guidata nella scrittura è stato il concetto di follia che nasce quando viene violata la libertà di essere e di aderire alla propria natura, qualunque essa sia”. Il tocco delicato delle parole della Marchitelli, la sfumatura lirica che ha donato a certe voci, il fatto che le abbia fatte conoscere, possa esorcizzare il dolore di queste persone, le cui vite spesso fino alla fine restarono imprigionate tra quelle mura che hanno visto e sentito cose orribili, in quei luoghi – come dice l’autrice – che conservano ancora un fascino malefico e infernale. Possano finalmente avere pace Teresa, Pasquale, Renato, Mario, Rosa, Emilio e tutti gli altri tramite loro, grazie a chi gli ha ridonato la voce. Una suggestiva copertina e un formato agile ed elegante arricchiscono poi questo libriccino già prezioso.