
Una donna e due bambini trascinano valigie di cartone lungo le strade di una Piccola Città, diretti al casolare della mamma di lei, che è al limitare dell'abitato. Oltre a loro sull’asfalto e nel fango solo camion militari che passano rombando. Arrivano dalla Grande Città, K., che è bombardata giorno e notte e ormai sta per cadere in mano all’esercito nemico. O perlomeno all’altro esercito in guerra, visto che anche i soldati che occupano la nazione sono invasori. La Nonna non ha un buon rapporto con la Madre e all’inizio rifiuta di prendere con sé i gemelli, poi cede: la Madre li affida a lei e se ne va con la promessa di mandare presto soldi e viveri, sperando che il Padre – corrispondente di guerra – torni sano e salvo dal fronte. La vita in casa della Nonna è molto diversa da quella che i due bambini hanno fatto fino a quel momento: l’anziana – che la gente del luogo ha ribattezzato la Strega dopo la morte sospetta del marito avvenuta anni prima – non si lava mai, è dura e scorbutica, costringe i fratellini a lavori pesanti e non contenta li insulta e percuote spesso e volentieri. Lucas e Claus per imparare a resistere si addestrano da soli al dolore e all’umiliazione mediante strani riti autolesionistici, e diventano ogni giorno più freddi e insensibili, addirittura spietati, mentre con una Bibbia, un dizionario e quaderni e matite imparano da soli ciò che la scuola ora non può insegnar loro. I primi turbamenti sessuali li hanno con una ragazzina dal labbro leporino della quale molti già si approfittano che abita in una povera casupola poco lontano e con l’inquietante fantesca del curato, una donna adulta che con la scusa di lavarli e vezzeggiarli usa Lucas e Claus per il suo godimento. E intanto l'ombra terribile della guerra si fa sempre più vicina...
Impossibile non partire dalla sua storia editoriale per analizzare il capolavoro di Agota Kristof, che è una trilogia postuma e artificiosa, per così dire, perché composta da tre romanzi - Il grande quaderno, La prova, La terza menzogna - pubblicati nell’arco di cinque anni dal 1986 al 1991 e quindi pensati come entità distinte, e comunque nati da periodi diversi della vita della scrittrice. Una vita che (la Kristof è fuggita col marito e la figlia piccola dalla natia Ungheria in Svizzera per sfuggire alla repressione sovietica del 1956) entra prepotentemente nei tre romanzi: addirittura Il grande quaderno, come ha svelato la stessa scrittrice, nasce da piccoli racconti autobiografici sulla sua infanzia vissuta assieme al fratellino durante la Seconda Guerra Mondiale: “Poi cambiai il mio nome e quello di mio fratello e trasformai i personaggi in due maschi e poi in due gemelli. Da quel momento non scrissi solo di cose da me vissute ma cominciai a immaginare altro. Lasciai l’autobiografia e riorganizzai quei capitoli per uno struttura romanzesca”. Ovvio quindi che sia perfettamente visibile - nemmeno tanto in trasparenza - l’intento di raccontare per metafora la grigia parabola del socialismo reale vista dalla prospettiva di un paese satellite dell’URSS (nei due eserciti che si scontrano all’inizio del romanzo è facile riconoscere quello nazista e quello sovietico): la censura, la burocrazia cieca, la corruzione, la povertà, la repressione, la chiusura al mondo esterno. Ma non ci si limita alla denuncia sociale e politica: le parole (poche, secche, gelide) e le immagini (dolorose come schiaffi o morsi o tagli) diventano carne e sangue, cupo orrore, disperazione senza vie d’uscita. Fiaba nerissima e sconvolgente, finissimo esercizio psicoanalitico (il doppio, l’identità, la maternità, la sessualità) e filosofico (la verità, la morte, il senso del possesso), Trilogia della città di K. è scritto in uno stile che parte stentoreo, rarefatto e man mano che i bambini protagonisti crescono si arricchisce e si fa più letterario, pur restando asciutto al limite dell’anoressia: “All’inizio non era per niente così. Anche quando scrivevo in ungherese ero melliflua, romantica, troppo letteraria. Solo quando ho cominciato a scrivere i capitoli della prima parte della Trilogia ho cercato fortemente un nuovo linguaggio: dovevo rendere lo stile di un libro scritto da dei bambini, anche se un po’ speciali, molto intelligenti e autodidatti, che amano i dizionari com'eravamo io e mio fratello”. Emozioni forti, plot evocativo, ambientazione e arco storico fascinosi: basterebbe, ma c’è di più. Ed è proprio quel di più a rendere i tre romanzi della Kristof capolavori che marchiano a fuoco la memoria di chi li legge: il geniale labirinto nel quale intrappolano il lettore, che dopo un po’ - tra diari e deliri, vite immaginate e vite vissute veramente - non sa più qual è la verità e chi sono per davvero i protagonisti, fino alle rivelazioni finali, che comunque si accolgono con incredulità, con un senso di sospensione che continua a vibrare come un diapason dentro la testa e il cuore dopo la lettura, per anni, per sempre. Minimale e micidiale.