Salta al contenuto principale

Tu che eri ogni ragazza

Il padre ha rivelato la grande scoperta alla madre. Non sono stati risparmiati, ora riguarda anche loro. Appartiene anche a loro adesso, quel dolore che non si pensa mai ci possa toccare da vicino. Poteva non accadere, invece è accaduto. Li ha colti impreparati, non erano pronti. Ora il padre riesce a vedere soltanto il volto dell’uomo che ha ucciso la figlia. Non lei, perché “ci vogliono le parole per vedere”. Non aveva un diario, sua figlia, il padre ha cercato ovunque. Alla fine ha cercato nel telefonino. Ha visto lì dentro tutta la breve vita della figlia, il suo mondo. Ascoltava pop argentino, questo non se lo aspettava. Ha avuto persino le sue soddisfazioni, lei, che bella non era. Ha avuto il tempo di soffiare il ragazzo alla migliore amica. Il tempo di amare... Jungla è alla stazione, ha perso il treno. Stretta nei fuseaux verdi, uno zainetto liso in spalla, vede Adele sfilare via. Il suo pugno si alza in un muto lamento, “Ke Skifo”. Prende il treno successivo. Fine del viaggio, binario 28, Roma Termini. Di questo posto Jungla non sa nulla, vaga sola e senza meta per il centro città. È una ragazzona alta, robusta, sgraziata. Obelix, la chiamano, a Sabbianera. È una categoria a parte nella lista stilata dai compagni di scuola, un nome creato apposta per lei. Perché Jungla è “enorme e non addomesticata”, “doppia, dal carattere mansueto e arrendevole, taciturna e quieta” ma capace di diventare improvvisamente irosa, violenta. Fa categoria a sé, Jungla, in ciò che è strano, in ciò che non è bello…

Ci sono libri cui bisogna dedicare quel momento in più, a fine lettura, per far sedimentare parole e sensazioni. Tu che eri ogni ragazza, romanzo d’esordio della scrittrice e drammaturga Emanuela Cocco, rientra in questa categoria. A primo impatto un libro ibrido, eclettico, difficile da digerire e altrettanto da spiegare, perché le voci orchestrate dall’autrice sono molteplici. Esistenze che viaggiano su diverse frequenze, sul palcoscenico di una Roma caotica, tra i muri alti e sporchi della stazione Termini, limbo metaforico in cui milioni di vite di passaggio ogni giorno si incontrano, soffrono, si feriscono, si toccano, si ignorano. Ci sono i monologhi del padre, flussi di coscienza in cui l’uomo parla alla figlia perduta, dal suo posto fisso alla stazione dove ha deciso di rimanere per fare l’elemosina, una equa “redistribuzione delle risorse” per chiunque tenda la sua mano. Le peregrinazioni di Jungla, quindicenne persa in una città ostile, rincorsa dalla “cosa” che da sempre la abita e che non vuole darsi per vinta. Il carosello metropolitano di personaggi che attorno a lei, volente o nolente, si raccoglie, tra i quali spicca Duca, l’educatrice disillusa che si mette sulle tracce della ragazza. Nel mezzo, come brevi interludi, gli spiazzanti scambi tra due voci senza corpo, che battagliano a suon di storie e invitano un invisibile lettore a “votare” pietà. E pietà sembra essere la parola-chiave del romanzo, o forse, ancor di più, la sua assenza. Una certa cecità tutta propria, diremmo, dell’essere umano, un abisso che ne determina a conti fatti la solitudine, ma anche la sopravvivenza. La Cocco osserva tutto questo e lo mette a nudo, ne vaglia i contorni, disturba e sconfina nella poesia più triste, scinde l'umanità in due piani: chi ce l'ha fatta e chi non ce l'ha fatta, chi è fuori e chi è dentro. E che sia giusto o ingiusto, importa davvero? Un esordio di certo non facile, spesso faticoso, frammentato ma fluido, in cui sono lo stile e la parola, curatissimi e non di rado crudeli ed estremi, a farla da padroni - non a caso, dice il padre, “ci vogliono le parole per vedere”.