
La prima cosa che Janie sente, mentre viene al mondo, sono le imprecazioni di dolore di sua madre Iris. Ma le Ryan sono così, “pescivendole fino al midollo, sempre pronte a litigare e brave a colpire dove fa più male”. Janie e sua madre si trasferiscono dapprima dalla nonna: ma non c’è possibilità di vivere con lei. È troppo impegnata a giocare a bingo e a bere. Non che la mamma di Janie sia da meno: ragazza madre, con una piccola a cui non ha idea di come badare, decide che il piccolo paesino in Scozia dove è tornata per partorire non sia adatto a lei. Cominciano così a trasferirsi nei quartieri periferici di alcune città del Regno Unito. Lì Iris conosce alcuni uomini: tutti perfettamente sbagliati, tutti completamente immersi in un mare di guai, troppo deboli per vivere assieme a loro. Janie osserva tutto e con la sua voce disincantata descrive un mondo che non decodifica ma che non giudica, si muove leggera scansando le sbornie di sua madre, quelle dell’ultimo convivente, l’ultima dose di eroina assunta da suo zio Frankie. Janie si sente protetta davvero in biblioteca: dove può scegliere la storia da leggere, dove la libertà è tra le righe di un libro. E lei si immagina, ben presto, esattamente come uno dei tanti personaggi dei romanzi che ha letto: pronta a spiccare il volo. A lasciarsi tutto e tutti alle spalle: finalmente pronta ad imboccare la sua strada...
Edito nel Regno Unito nel 2012 (con un titolo originale molto diverso da quello in traduzione italiana), Tutti gli uomini di mia madre è l’esordio folgorante di Kerry Hudson, classe 1980. Un romanzo impegnativo (oltre trecento pagine) scritto con un ritmo serrato, che non concede tregua al lettore. Janie e Iris diventano ben presto “di famiglia”. Il loro continuo battibeccare, i dialoghi fitti, lo sguardo innocente di Janie a cui non sfuggono le debolezze degli adulti ma che non condanna mai, che non giudica: prende la vita così com’è, tra salite e discese, momenti di tranquillità a quelli di burrasca. Per alcuni passaggi sembra di essere proiettati all’interno di un film di Ken Loach o di leggere alcuni passaggi di Eureka street di Robert McLiam Wilson. Quello che la Hudson non compie, a differenza del regista e del romanziere appena citati, è una analisi sociologica delle periferie britanniche (o irlandesi). La Hudson ci conduce nella sua narrazione ad un ritmo che potremmo definire “brit pop”, se volessimo utilizzare una categoria musicale. Quello che manca è, forse, una “discesa” negli inferi del dolore delle protagoniste: sembra che la Hudson cerchi sempre di mettere un filtro tra loro e i loro sentimenti. Affogare il dolore nell’alcool, trascorrere la notte tra un pub ed un altro, scandire i minuti bevendo birra, è quello che fanno le protagoniste. Il romanzo potrebbe letteralmente “esplodere” ma non lo fa mai: Janie e Iris sono contenute sempre e cinicamente si difendono. Kerry Hudson ci regala un romanzo dissacrante, doloroso, necessario e interessante, da cui si fa realmente fatica ad alzare lo sguardo.