
In un locale a ridosso della strada un uomo serve ai tavoli. Può solamente servire, non cucinare. Quello era compito della moglie, abbastanza alta da raggiungere tutti i ripiani della dispensa. Lei ora si trova morta sul pavimento della cucina, ma lui non intende chiudere il locale... La figlia di una coppia divorziata si astiene dal cibo per giorni e si chiude nella più totale apatia. Non esce all’aria aperta e non tenta di comunicare. Si chiude in gabbia, proprio come gli uccelli vivi di cui si nutre... Alla guida di una macchina un uomo guarda Talpa seduto accanto a lui, sgomento. Gli ha appena chiesto di addentrarsi nella zona più malfamata della città: il quartiere dei cani randagi. Deve sceglierne uno, caricarlo in macchina, portarlo al luogo prestabilito e massacrarlo. Se non lo farà non si fideranno mai di lui. Per acquisire potere deve dimenticare la sua umanità. Sta per conoscere il senso di colpa di fronte ad un sacrificio vano... Un bambino non controlla la sua ira. Quando la rabbia impervia immagina di rompere la testa dei suoi interlocutori sull’asfalto. L’unica via per tenere a bada il suo istinto omicida è dipingere ciò che immagina. In età adulta, i suoi quadri violenti gli donano una fama smisurata. Se solo i suoi acquirenti sapessero...
Questi, solo alcuni dei venti racconti ambientati in un’Argentina dei giorni nostri. Storie che abbracciano la vita che conosciamo, intrecciando insieme il normale e l’assurdo e dissolvendone i confini. Racconti senza inizio e senza fine, racchiusi in una dispensa colma di cassetti che potrebbe essere definita come “umanità”. Ogni racconto mette in scena la prospettiva peggiore della loro risoluzione. Gli esseri umani, spogliati dei loro istinti, fanno i conti con la realtà. Essa non va compresa: è la sola realtà ad essere reale. Samanta Schweblin, autrice di Kentuki e Sette case vuote, torna a disturbare la vita dei suoi lettori Uccelli vivi. Certo, chi legge quest’autrice è perfettamente pronto a lasciarsi inquietare. Nella prefazione che apre la raccolta di racconti, scritta e firmata dall’autrice stessa, viene dichiarato il suo chiaro intento, come se ci venisse offerta un’analisi critica volta ad aiutarci a capire. Sembra che chieda espressamente di metterci in discussione, di non fidarci di nessuno. Nemmeno di lei. Lei stessa afferma che la trama, più dei personaggi, è la chiave per comprendere. A muovere i comportamenti umani è in questo caso la storia che unisce l’autore con il lettore e che “esorcizza il primo di qualcosa di amaro [...], e incanta il secondo rivelandogli un’amarezza che, una volta condivisa, si digerisce diversamente”. Le premesse potrebbero far pensare a 20 racconti che abbiano come sfondo scenari assurdi, distopici ed inquietanti. Tuttavia, la penna di Samanta Schweblin è molto più sottile di così. Il mondo delle sue storie è il nostro, esattamente come lo conosciamo. I protagonisti sono persone comuni. Le storie sono perfettamente plausibili. Dove sta allora l’elemento disturbante? Nei disallineamenti. Minuscoli sfarfallii in una pellicola perfetta. Essi sono, spesso, tanto impercettibili da non farsi quasi notare. Eppure riusciamo a sentirli. A fine lettura tutto ci sembra ancora uguale, eppure sentiamo quella sensazione sgradevole di inquietudine, quel prurito fastidioso alla base della nuca che urta la nostra calma. La violenza ed il suo conseguente senso di colpa, lo straniamento, la solitudine, il trauma, la compassione sono componenti reali della vita che, se uniti da una penna tanto geniale, possono diventare scioccanti. L’unica vera domanda è: se credo che tutto ciò possa davvero accadere, che posto è il mondo e qual è la realtà?