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Ultima fermata Delicious

Ultima fermata Delicious
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La Delicious Foods cerca manodopera nel settore agroalimentare, in cambio offre una buona paga e un alloggio come fosse un hotel a tre stelle con piscina. Dopo la morte del marito Nat, Darlene si dà alla droga e per racimolarla si mette a battere per strada. È lì che la pesca il furgone nero della Delicious con Jackie sopra che le illustra tutti i vantaggi di lavorare per la sua azienda e la alletta con la sua irresistibile proposta ed una pipa di crack pronta all’uso. Cibo gratis e soldi per la droga - per Scotty, come i tossicodipendenti la chiamano amichevolmente - Darlene non tentenna. Salta a bordo con la sua borsetta e non pensa ad altro. Non la ferma nemmeno sapere di avere a casa un figlio - Eddie, dodicenne - che la aspetta e che si metterà a cercarla per giorni tra gli alcolizzati, i barboni e le puttane, nei diner e per le strade della periferia quando la giustificazione di una sbronza prolungata non regge più e dopo che la polizia se ne è lavata le mani. Sono neri, del resto, che si aspettano? Il furgone sul quale Darlene sale ha i vetri oscurati, dentro ci sono altri disperati come lei che sproloquiano già strafatti e quando arrivano a destinazione non trovano esattamente quello che Jackie aveva prospettato con la sua propaganda. In un posto che nessuno sa identificare, punteggiato di vecchie baracche di legno e campi di mais, puzzolente di letame e invaso da piume di pollo, tagliato fuori da ogni collegamento, Darlene e i suoi compagni vengono messi a lavorare nei campi, a raccogliere pesanti cocomeri, spalare guano nei pollai, sottostare ai brutali capricci del guardiano How, accumulare un debito inestinguibile per il trasporto fino a lì, il cibo e la droga. Niente docce, l’acqua per lavarsi è la stessa del cesso. Chi tenta di scappare lo fa a proprio rischio e pericolo e non è mai giunta notizia di qualcuno che ce l’abbia fatta. Alla Delicious si arriva, ma non si può andare via. Anche Eddie arriva, un giorno. Gli hanno detto che sua madre è lì…

La spaventosa galassia raccontata da James Hannaham è illuminata da un faro che amplifica le croste e la sporcizia dei reietti che tappezzano le strade alla ricerca dell’effimero che gli scacci la fame o in attesa di morire con la testa poggiata su un cuscino di bottiglie. È in questo marciume suppurato di disperazione che si cerca la carne da cannone da sfruttare, perché poco è meglio di niente e anche male è meglio di niente. Alla Delicious, radiografia morale di un sistema capitalistico corrotto e degenerato, lo sanno benissimo che chi non ha niente non ha niente da perdere e che in cambio di alcool e droga si può chiudere un occhio su tutto il resto. Blandizie e ottundimento sono i fili su cui si muovono i miserabili di questa storia, figure fragili, spezzate, con le corde vocali annodate, schiacciate dal peso ricattatorio del colore della loro pelle e della loro miseria ancora più che dalle minacce dei ras che li controllano. Fa rabbia vederli chini a raccogliere frutta stenta sotto la canicola senza potersi sollevare per asciugarsi il sudore. Fa rabbia pensare all’assenza di una qualsiasi forma di reazione, come se quello fosse tutto il dovuto, come se fosse una sorta di punizione divina per la vita dissipata che ciascuno di loro ha condotto e conduce. La Delicious Foods come un infinito campo di espiazione. Darlene e Eddie rappresentano i due punti estremi di questa galassia: la dissolutezza di lei, madre distratta, concentrata a tenersi aperta con la droga la via di fuga da un lutto insanabile; la coscienza di lui, solido, maturo, determinato, disposto a tutto per salvare sua madre da quel posto infame e se stesso da tutto il resto. Del loro rapporto, alla fine, rimarranno scampoli da cucire alla meno peggio. Sullo sfondo, un’America che manca tutti gli appuntamenti con la civiltà; un Paese razzista, che soffia e alimenta il fuoco del KKK, che si volta dall’altra parte, che sostiene e caldeggia la ricerca del profitto, rende lecito ogni strumento atto allo scopo e traduce e ritraduce nel tempo, per renderlo sempre moderno e a la page, il concetto di schiavismo. Hannaham - pur senza originalità ed essendo per ampi tratti noioso e ripetitivo - ingrandisce uno spaccato nel quale la distribuzione della forza e del potere è iniqua e a chi soccombe non è garantito il diritto di rialzarsi mai del tutto. Restano traumi e cicatrici, lo sforzo di passare oltre con la certezza che il piatto nel quale stai tu con i tuoi stracci e la tua povertà rimarrà sempre quello più sbilanciato, vertiginosamente in alto, come se non pesasse affatto.