
Sono le prime ore di una mattina di marzo a Roma, fa freddo. Il pulmino arriva intorno alle otto e mezza, e i bambini piangenti e recalcitranti salgono su. Anche Marco Damilano è un bambino di quasi dieci anni, e l’autista del furgoncino bianco Volkswagen è la signora Tilde, una bionda di origine elvetica che dirige la scuola Montessori di Monte Mario e passa personalmente a prendere gli allievi ogni giorno. Lo stesso tragitto ogni giorno, da Prati fino a piazza Madonna di Guadalupe, senza mai problemi o impedimenti di sorta. Nessuno dei bambini quella mattina nota nulla di sospetto, nessuno si accorge di uomini in uniforme che aspettano qualcosa. Chiunque sia stato bambino nel 1978 conserva un ricordo personale del rapimento Moro, il caso che sconvolse l’Italia e che ancora oggi lascia strascichi. Tutti ricordano di sicuro l’interruzione improvvisa della scuola, i genitori che andavano a prendere i bambini. Un evento “che ha dell’incredibile”, l’onorevole Aldo Moro è stato rapito. Moro, un nome che anche i bambini avevano sicuramente sentito di sfuggita, ma a cui difficilmente sapevano dare un volto. Un nome che improvvisamente divenne familiare e pervasivo per tutti i 55 giorni di prigionia del presidente della Democrazia Cristiana. Marco ha un ricordo di Moro, lo aveva visto da vicino un paio di anni prima, in una piccola chiesa. Suo papà gli aveva detto che gli avrebbe fatto vedere una persona importante: era lui, Aldo Moro, vestito di scuro, inginocchiato, rivolto verso l’altare e intento a pregare. Un uomo potente, al massimo della sua parabola politica, ma allo stesso tempo una persona umile, che si inginocchiava e sentiva il peso della responsabilità…
Marco Damilano è uno dei giornalisti più in vista d’Italia. Direttore de “L’Espresso”, già autore di Eutanasia di un potere, Chi ha sbagliato più forte, La Repubblica del selfie e Processo al nuovo, è anche volto noto agli spettatori di La7, che lo conoscono in quanto presenza fissa delle celebri Maratone Mentana e di Propaganda Live, la trasmissione di Diego Bianchi dove una parte centrale ce l’hanno gli “Spiegoni Damilano”. Un atomo di verità è un saggio con una forte componente biografica, dove i ricordi si affastellano, e il tema della memoria ritorna di continuo. Le ricerche dell’autore sono state meticolose e approfondite, partendo da Maglie, il paesino natio di Moro in provincia di Lecce, ma coinvolgendo anche carte rimaste finora inedite e tratte dall’archivio Moro, fotografie, persino biglietti di auguri. In via Fani, nei minuti del sequestro o poco dopo ci fu uno strano via vai di personaggi o, in alcuni casi, di ombre e fantasmi, un sovraffollamento inusuale e sospetto: non solo le BR, ma anche faccendieri, militari, uomini dello stato, servizi segreti italiani e non, persino ‘ndranghetisti. Per decenni siamo stati abituati a sostenere che Moro fu rapito il giorno del varo dell’ennesimo esecutivo Andreotti, il primo coi comunisti al governo del Paese, con tanto di luoghi comuni e falsi miti sul “compromesso storico” genialmente ideato dallo statista democristiano. Se però andiamo a leggere i giornali dell’epoca con lo scrupolo filologico di Marco Damilano ci rendiamo conto che forse abbiamo dato per scontate troppe cose e ci siamo trincerati dietro mezze verità di comodo: il 16 marzo ’78 l’operazione sembrava già fallita, e l’Andreotti IV destinato a morire in culla. La tensione era palpabile, e si aggravava con l’esclusione di Gava, l’ipotesi astensione dei deputati del PCI, ma anche la rabbia di Lattanzio, uomo di punta della DC ed ex ministro dell’Interno, che non le mandava a dire in un’intervista. Ad ogni modo via Fani è lo spartiacque totale per l’Italia postbellica, “le nostre Twin Towers”. E in tal senso, è eloquente il titolo scelto da Damilano: “Aldo Moro e la fine della politica in Italia”, a sottolineare che dopo la tragica fine del leader dello Scudo crociato nulla è stato più lo stesso, e da Craxi a Renzi passando per Berlusconi e Prodi nessun leader ha lasciato il segno come lui, che da tutti veniva descritto come un uomo fin troppo lento e moderato, ma che si dimostrò incredibilmente avanti sui tempi nell’aprire ai socialisti e addirittura ai comunisti proprio nei suoi ultimi giorni, tanto da essere osteggiato soprattutto dai suoi stessi compagni di partito.