
Asuka Ozumi, milanese classe 1976 e attualmente residente a Torino, è una traduttrice, interprete e insegnante di lingua giapponese. Nata da genitori giapponesi, dopo il dottorato di ricerca presso l’Università degli Studi di Napoli l’Orientale si concede un anno di studio a Kyoto, prima di rientrare in Italia e dedicarsi dal 2005 alla traduzione di manga per i maggiori editori italiani (tra cui Kappa Edizioni, Star Comics, Edizioni BD, Panini Comics, Ippocampo). Dal 2017 ricopre il ruolo di direttrice della collana Showcase e di Licensing and Publishing Manager per Dynit Manga. Docente di lingua giapponese, tiene diversi corsi presso l’Università di Torino, Alma Mater Università di Bologna e CeSAO (Centro Studi Asia Orientale Torino). Suoi anche alcuni corsi formativi per Feltrinelli Education. Asuka è sempre molto impegnata, l’intervento da lai moderato con Dale Furutani è appena terminato e il firmacopie sta per iniziare. Adeguandoci al suo passo rapido, riusciamo a scambiare qualche parola con lei tra i corridoi del PAD2 al Salone Internazionale del Libro di Torino 2023. Esattamente la durata che avrebbe un caffè consumato al banco.
Com’è essere traduttrice in Italia?
Il lavoro del traduttore purtroppo in Italia è uno di quei mestieri non retribuiti in modo proporzionato alle competenze richieste. Piccoli passi avanti sono stati fatti; ad esempio, STradE, il sindacato dei traduttori, ha intrapreso diverse battaglie anche sul versante economico. Adesso i nomi dei traduttori compaiono sicuramente nel colophon, qualche editore lo inserisce in quarta, in aletta, alcuni addirittura in copertina. Sicuramente la visibilità è aumentata rispetto al passato. È un lavoro molto solitario, ore e ore di fronte al computer ma al contempo molto bello e stimolante, in quando permette di traghettare la voce di un autore da una lingua all’altra. Per come è il mercato dell’editoria oggi in Italia, lo definirei quasi un privilegio.
La giornata tipica di una traduttrice alle prese con una deadline imminente…
Per fortuna ho due figli che mi obbligano ogni tanto a staccare, banalmente per le necessità legate alla sopravvivenza che sono mangiare e dormire. Sotto deadline: sveglia, colazione e computer finché non stramazzo.
La moda “Giappone” si è diffusa già da qualche anno in Italia, arrivando a toccare anche l’ambito editoriale. Dal tuo punto di vista, i pro e i contro di questo fenomeno quali sono?
Ritengo siano più i pro dei contro. Oggi assistiamo a un fiorire di traduzioni di romanzi di narrativa e di vari altri generi, compreso anche l’ambito dei manga, cosa che dieci, quindici anni fa non era nemmeno ipotizzabile. La pubblicazione di un titolo di un autore giapponese era già un azzardo più che sufficiente per una casa editrice. L’offerta oggi è decisamente maggiore anche se, purtroppo, tende ad essere livellata e uniformata verso i prodotti commercialmente più appetibili. I romanzi “feeling good” ne sono un esempio. I risvolti più fastidiosi sono le molte informazioni ridondanti e spesso di scarsa qualità sugli argomenti più mainstream: consigli per il tuo viaggio in Giappone, ricette e ristoranti imperdibili… Alcune direttrici hanno più successo, a discapito di pubblicazioni di livello ma considerate più di nicchia.
Il Giappone non è solo manga per ragazzi e cultura kawaii. Hai iniziato a farlo scoprire al pubblico italiano con alcune pubblicazioni da te tradotte come Black Box (Inari Books) e Adabana - Fiori effimeri (Dynit Manga), che trattano di un Giappone meno conosciuto e più problematico…
Andare ad esplorare i coni d’ombra della cultura giapponese non significa amare di meno questo paese, anzi forse è anche un modo per abbracciarlo in tutta la sua complessità. La divulgazione del Giappone limitata ai soli concetti di bellezza, di armonia, di tranquillità e connessione con la natura crea un’immagine molto idealizzata, romantica ed esotizzante del paese. È vero che forse è proprio questo che il pubblico cerca, ma sicuramente esiste anche una parte di lettori che vuole andare oltre ed è pronto per i “panni sporchi”.