
Gerusalemme, 1967, guerra dei sei giorni. Avram ha sedici anni, è ricoverato in isolamento per una malattia infettiva e non riesce a dormire perché nella stanza accanto, una ragazza canta nel sonno. È Orah. Avram si alza e le dice che così sveglierà tutto l’ospedale, ma in quelle stanze sono rimasti soltanto loro due, insieme a Ilan – un compagno di classe di Avram – e Vicky, un’infermiera araba che compare ogni tanto a portare le medicine. I due ragazzi incominciano a parlare, ogni tanto si addormentano vinti dallo sfinimento della febbre alta, ogni tanto si risvegliano al buio e si cercano, mentre fuori esplodono le bombe e nessuno di loro sa che cosa sta accadendo di preciso, né perché ai genitori non è consentito far loro visita. Forse è venuta la madre di Orah, ieri? La febbre e quel continuo spostarsi tra il mondo della veglia e quello del sonno non le permettono di essere sicura di nulla. Di una cosa soltanto è certa: del suo sogno bianco, dove persino Ada, la sua amica dai capelli rossi, è completamente bianca, senza più una goccia di sangue a darle colore alle guance. Orah racconta ad Avram di Ada, perché “prima che lei morisse (...) Era viva”. Molto tempo dopo, saranno Orah e Ilan a sposarsi. Ma quando il figlio minore di Orah partecipa a un’incursione in Cisgiordania, la madre è oppressa da un terribile presentimento e decide di fuggire da casa per non essere presente quando i militari dovessero tornare a portarle cattive notizie. Ad accompagnarla, ricompare Avram…
È la forma narrativa dell’inquietudine, il romanzo della sospensione, della precarietà di tutto ciò che vive. È una storia che si svolge prevalentemente al buio, lo stesso buio che si doveva mantenere in quegli anni per evitare i bombardamenti. È insieme la storia di un figlio mai riconosciuto perché accoglierlo comporterebbe spalancare le braccia alla vita, e Avram, dopo la prigionia durante la guerra del Kippur, non è più lo stesso, ha perso quella vitalità che a sedici anni, in un ospedale di Gerusalemme, gli faceva progettare spettacoli di teatro, e storie, e viaggi che avrebbero fatto poi. Lui e Orah. Grossman costruisce tre personaggi – Orah, Ilan e Avram – che sfuggono a ogni definizione e a ogni giudizio perché sembrano appartenere al mondo delle persone vive. D’altronde questa è l’intenzione dell’autore sin dal principio: parlare della storia di Israele e di come le drammatiche vicende di un Paese condizionino la vita di una piccola famiglia, come la violenza di uno stato di guerra permanente ricada e si insinui nell’intimità della casa, senza scampo, senza protezione alcuna. Lo stile quasi teatrale nella prima parte del romanzo (come un radiodramma, racconta Grossman in un’intervista), cambia nel corso della storia, quando è la protagonista femminile a prendere la parola più decisamente, nonostante la narrazione resti in terza persona fino alla fine. Da leggere, e rileggere, e rileggere ancora.