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Un divorzio tardivo

Un divorzio tardivo

Domenica precedente la Pasqua. Gadi viene svegliato nel cuore della notte; la madre lo accarezza e cerca di metterlo seduto sul letto mentre il bambino casca letteralmente dal sonno: “È arrivato il nonno, te l’avevamo detto che alla fine sarebbe venuto” dice ridendo e Gadi si rimette a dormire nonostante muoia dalla curiosità di vedere se nella valigia del nonno c’è qualche pacchetto per lui e ansioso per il seder che si svolgerà l’indomani a scuola. Il nonno è Yehudà Kaminka, fuggito tanti anni fa negli Stati Uniti ed ora tornato per divorziare dalla moglie Na’omi, rinchiusa in un ospedale psichiatrico dopo aver tentato di accoltellare il marito. Quel vecchio che Gadi non ha mai conosciuto, ora vaga per casa con il suo strano pigiama rosso, un mucchio di capelli bianchi e gli occhi così chiari e vispi che a vederlo bene non sembra poi neanche tanto vecchio. Il nonno fa un sacco di domande a Gadi, quasi volesse recuperare tutto il tempo che ha trascorso in America, lontano dalla sua famiglia. Chiede soprattutto se mamma e papà vanno d’accordo e il bambino inizia a raccontare, tirando fuori ricordi che nemmeno sapeva di avere registrato nella sua testolina. Come quella volta che la mamma aveva perso una borsa con dentro più di duemila lirot e il marito non le aveva rivolto la parola per giorni...

Secondo romanzo della trilogia D’amore e di guerra di cui fanno parte anche L’amante e Cinque stagioni, Un divorzio tardivo è un lungo racconto che si svolge nei giorni precedenti la Pasqua. Una narrazione a più voci, una per ognuno dei nove capitoli; uno stile non sempre facile da seguire, fatto di stralci di discorso diretto alternato a lunghe pagine in cui prevale il flusso di coscienza, il dialogo ad una voce sola, con una punteggiatura pressoché inesistente e salti temporali che a volte richiedono una seconda lettura del brano. Eppure si rimane inchiodati alla vicenda di questa famiglia e di questo vecchio professore che ha abbandonato i propri cari in Israele per rifarsi una vita negli Stati Uniti ed ora torna per firmare le carte del divorzio dalla moglie. Tutto e tutti ruotano attorno al ritorno di Yehudà: il piccolo Gadi, che alleva bachi da seta e che ascolta meravigliato i racconti di quel nonno che non ha mai conosciuto prima; Assa, il professore universitario di storia, insicuro e insoddisfatto che non riesce ad abbandonarsi alla bellezza travolgente e sensuale di sua moglie Dina; Connie, la nuova stramba compagna americana di Yehudà che arriva in famiglia portando un piccolo bambino tutto vestito di rosso; e la dolce Yael, remissiva e accondiscendente verso un marito maschilista e razzista, che a modo suo tiene le fila dell’intera famiglia, serbandone la memoria:“Io sono colei che mette insieme questa storia e che gelosamente la custodisce, giorno per giorno, ognuno al suo posto, nei minimi dettagli, colori, odori, frammenti di converazione, particolari di vestiario, umori, mutamenti atmosferici […] Io che non dimentico, io che non dimenticherò, io che ricordo per tutti”. E se il lungo racconto di Yehoshua può essere letto come metafora della società e dell’identità ebraiche, è anche vero che è soprattutto uno spaccato sui complicati rapporti familiari, talmente intricati che talvolta sfiorano la nevrosi: “Spesso la follia di una persona serve ai suoi parenti”scrive Yehoshua in un’intervista rilasciata anni fa“per sentirsi normali. Durante la terapia accade che quando il malato diventa più stabile, gli altri intorno a lui cominciano a manifestare dei disagi perché non sono più rassicurati sulla loro normalità dalla diversità del loro congiunto”. Ed è proprio quello che succede a tutti i protagonisti che calcano la scena di questo splendido romanzo corale: dubbi che si insinuano, sentimenti che riaffiorano improvvisi, ricordi che si manifestano potenti e dolorosi. Fino all’epilogo tragico che lascia il lettore a bocca aperta, spossato e desideroso di nuove risposte.